La lingua batte dove l’idioma duole (e sfugge)

È in circolazione un bellissimo libretto, La malinconia del traduttore, di Franco Nasi (Medusa, pagg. 110, euro 11,50), al quale auguro una fortuna sfacciata. Non è un saggio, ma una specie di autobiografia sommaria, che lascia al racconto il compito di rintracciare, dentro la vita, il seme buono della riflessione.
Alla malinconia, e alla parola blue che in inglese - meglio, in americano - ne raccoglie tutte le sfumatore, è dedicato il primo racconto. E anche se la malinconia della scrittura di Nasi è più padana che americana (timbro e colore non mentono), noi apprezziamo il tentativo del traduttore di definire il proprio lavoro mediante una parola - blue - che abbracci in un unico dato d’esperienza la lingua d’origine e quella nuova. Alleviando almeno un po’ il trauma che la parola subisce comunque, quando cambia lingua.
Io però non vorrei soffermarmi su questo libro, quanto sulle riflessioni che mi ha spinto a fare circa il mio rapporto con le lingue. Perché il rapporto tra le lingue è mutevole, i confini slittano, c’è in esse una specie di orologio del tempo presente, di misura di quello che è «oggi» rispetto a quello che era «ieri». In un altro capitolo del suo libro, Nasi racconta dell’incidente nel quale incorse il giorno in cui si offrì di tradurre alcune poesie di un poeta americano, di cui era diventato amico. L’offerta, gradita dal poeta, suscitò le ire del traduttore «ufficiale» dello stesso. Un traduttore molto bravo: serio, laureato, che conosceva da sempre quel poeta, aveva scritto saggi fondamentali su di lui, eccetera eccetera.
Non nascondo la mia simpatia per il traduttore geloso. Mi è simpatico perché appartiene a un’epoca passata: quella che intende la lingua come un «sistema» ben strutturato, e la traduzione come un rapporto tra due «sistemi». È un’impostazione scolastica, solida, fondata sulla persuasione che il fondamento di una lingua sia soprattutto la sua letteratura, il complesso cioè delle parole già consegnate alla memoria di tutti. A questo tipo di traduttore se ne va sostituendo un altro. È un traduttore che viaggia molto, studia mondi diversi, annusa gli ambienti, capta le vibrazioni: per lui il fondamento di una lingua è, per così dire, il «vissuto» che esprime. E sa che il vissuto è fatto, a sua volta, essenzialmente di lingua e di parola. Perciò esiste una intraducibilità che va oltre le parole, e riguarda sentimenti ed emozioni.
Vado spesso in Francia, e anno dopo anno mi accorgo che l’intesa linguistica è sempre più difficile. Le espressioni idiomatiche in francese aumentano di numero, così come aumentano da noi, creando divaricazioni sempre crescenti, perché le espressioni, ovviamente, non sono le stesse. Questo almeno in parte dipende, credo, dall’influenza che non solo la lingua inglese, ma la cultura linguistica anglo-americana (anche attraverso traduzioni, doppiaggi di film eccetera) esercita sulle lingue latine. Magari non conosciamo l’inglese, ma in compenso, a poco a poco, impariamo a pensare in anglo-americano: una lingua più adatta della nostra a esprimere le situazioni del vissuto quotidiano. Ma il vissuto è, dicevo, una cosa unica, individuale, ed è perciò normale che si avverta un senso di intraducibilità, e quindi di malinconia, di solitudine.


E io mi domando se questa sia un’evoluzione fatale della nostra coscienza linguistica o se non sia, al contrario, il segno di una debolezza antropologica, di una scarsità di grandi ideali capaci di accomunare i cuori e - già che ci siamo - di accendere e movimentare un po’ le letterature.

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