Politica

È la lingua che ci apre la mente

A language for life, una «lingua viva»: così i neoumanisti britannici definiscono non il loro onnipresente English, ma il latino di Cicerone e di Orazio.
Parliamo di sigle e motti che, con la loro densa solennità, descrivono con gagliarda concisione realtà storiche complesse. Pensiamo all’E pluribus unum, «Dai molti, uno» che orna non solo lo stemma statunitense, ma anche il verde del dio dollaro. Lo suggerì nel 1776 Pierre Eugene DuSimitiere, un umanista che nel Moretum, «Pizza rustica», un poemetto attribuito a Virgilio, leggeva la frase color est e pluribus unus, «da molti colori, uno solo», poetica descrizione di un impasto a base di formaggio e ingredienti assortiti. Non è da meno l’Unione Europea, che pare richiamarsi ai fasti unitari e ideali dell’impero romano, fregiandosi con il titolo di In varietate concordia. Chi sa di latino, decifra le arcane ispirazioni di Roma Ryan, modulate con gaelica e gotica tenerezza da Enya: Tempus vernum, «la primavera».
Naturalmente, si può anche permettere il lusso di stupire i meno colti amici interpretando le paginate medioevali di Umberto Eco, Il nome della rosa, i misteriosi incantamenti che punteggiano le magie di Harry Potter, o le battute dei militi e dei procuratori romani che intercalano l’esotico aramaico nel discusso film di Mel Gibson, The Passion.
Ma, passando ad argomenti più seri, il latino conserva una sua validità pedagogica? Negli anni ’60, la lingua di Roma (allora bollata da molti come «morta e classista») fu sradicata dall’insegnamento medio italiano, anche se uomini della sinistra come Togliatti, il latinista Concetto Marchesi, e Paolo Bufalini tentarono invano di opporsi alla tendenza, ispirandosi allo stesso Gramsci che in una pagina famosa dei Quaderni del carcere prevedeva quanto sarebbe stato arduo trovare valide alternative alle discipline classiche, per la formazione di un bagaglio culturale completo.
Difficile credere - come propose qualche tempo fa l’Osservatore Romano - che il latino possa assurgere a strumento di comunicazione planetaria, una artificiosa «lingua-terra» capace di unificare il dialogo.
Ma il fatto che il latino «apra la mente» è tutt’altro che un pigro e farisaico luogo comune. Non il latino in quanto tale, ma lo studio articolato, non superficiale, dei contenuti umani veicolati da quel maturo e completo idioma sottratto al divenire del tempo. Pensiamo alla scientificità cristallina e formativa di un atto intellettuale come il tradurre. Corretta analisi di forme, scelta interpretativa delle soluzioni, ricostruzione positiva di un pensiero: sono passi la cui lucida successione, meditata e collaudata, garantisce il successo, esattamente come in quell’ambito scientifico e tecnico che una visione affrettata e semplicistica della didattica vuole contrapporvi, come esclusivo passaporto per la modernità. Senza contare che tradurre significa anche sistemare i dati storicamente: un termine che mostra un significato nella lingua arcaica di un Catone o di un Ennio, ne assume altri, ben diversi, nell’epressione di autori della latinità più avanzata.

Può essere un possente antidoto all’appiattimento, all’annientamento delle prospettive critiche che oggi genera, troppo spesso, la miopia dell’effimero, la miseria del generico, del globale.

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