La lirica alla scoperta del sacro

Mario Luzi è morto il 28 febbraio dell’anno scorso, ma sempre ci si richiama a lui e lo si celebra come uno dei maggiori poeti viventi. E se a noi che fummo giovani al tempo di Onore del vero, di Nel magma e di Su fondamenti invisibili non riuscì sùbito facile proiettare su un medesimo orizzonte speculativo-espressivo il Luzi lirico e quello del «teatro di parola» - che prese a delinearsi in lui alle soglie del 1970 come una integrazione del registro dell’io -, a chi è giovane oggi sembra invece addirittura ovvio che l’unità del pensiero e del discorso luziano si distribuisca con pari energia ed efficacia su varii livelli formali.
Il preambolo giova a introdurre la positiva fatica di una studiosa non ancora trentenne, Sarah Bernasconi, che intitola Tra cielo e terra la sua monografia (Cesati, pagg. 221, euro 20), esplicandone così l’argomento: «La metamorfosi del sacro nella poesia e nel teatro di Mario Luzi». Un libro utile, scandito fitto in capitoli e paragrafi, ciascuno dei quali vòlto a chiarire una stagione specifica ma sempre con lo sguardo a quella prospettiva generale anticipata in una introduzione che mi pare condivisibile in tutto o quasi. La vastità dell’opera luziana impone un limite avaro al numero dei testi selezionati e commentati in virtù della loro esemplarità, ma il quadro complessivo non ne risente. E sottoscriverei alcuni asserti, come quello che giudica le figure-simbolo essenziali (mare, fuoco, vento...) «significative» non in assoluto e in astratto bensì in relazione al «contesto» e alla «poetica» a cui di volta in volta rispondono.
Libro serratissimo nei suoi rinvii interni ed esterni, anche se non sorretto, purtroppo, dal dono di una scrittura non si dice elegante ma almeno spigliata ed «economica». Pazienza. Malgrado ciò, le sue pagine profittano della straordinaria ricchezza della materia in causa, e non giocano coi vocaboli del poeta, siano pure i più seducenti e densi. Così la «metamorfosi» che emerge fin dal sottotitolo non è un segnale vago o intuitivo ma una ratio a cui ripetutamente Luzi si riconduce con la riflessione e con la fantasia, a partire da quella sua maturità colma e comunicativa a cui dobbiamo fra l’altro, verso il ’70, un poema dei più coinvolgenti: Nel corpo oscuro della metamorfosi.
La mia generazione magari si stupisce constatando che gli anni tra l’esordio poetico e Onore del vero quantitativamente non coprono ormai neanche un terzo dell’arcata di questa esperienza letteraria. Ma è comprensibile che i più giovani - e più criticamente capaci - ne ravvisino i fulcri principali un po’ più in là; e che, ad esempio, ai loro occhi il sacro assuma un ruolo decisivo solo dopo il 1960, quando la maternità della terra e la maternità carnale fremono di un eguale «spirito» di immanenza. Allora si fa più dinamico quel senso di trascendenza che nella lirica luziana è un postulato primario. Una funzione innovativa, quasi uno scarto, la Bernasconi attribuisce alla penultima raccolta, Sotto specie umana; mentre, uno di séguito all’altro, i forzatamente brevi paragrafi sulle pièce teatrali illustrano, con la molteplicità degli stimoli e delle fonti, l’originalità di un itinerario anch’esso disposto, se non a smentite o ad abiure, a «virate».
Una sarebbe quella che Luzi compie con la Via Crucis al Colosseo, scritta nel 1999, dietro sollecitazione esplicita di papa Wojtyla.

Che a quel punto - o più che mai da quel punto - trascendenza e immanenza siano percepite e vissute come una sola, indistinta realtà, non lo ignorano i lettori del nostro poeta. E non v’è dubbio che alla comprensione del suo universo il libro di Sarah Bernasconi offra un contributo attento, rigoroso.

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