Negli ultimi dieci anni la nostra ricchezza è cresciuta dello 0,2 per cento l’anno, mentre la media europea è stata cinque volte più generosa. Nei medesimi dieci anni sono state fatte una ventina di manovre finanziarie (solo quest’anno quattro) per un valore (considerando l’inflazione) di 270 miliardi di euro. Converrebbe convincersi che le due cose vanno insieme. Cresciamo poco perché tassiamo tanto e tagliamo male.
Il mantra di tutti i governi è stato quello di tenere i conti in ordine. Come non essere d’accordo con una tale virtuosa dichiarazione di intenti? Il punto è il modo in cui si è cercato di fare pulizia: con le manovre finanziarie.
I governi Berlusconi sono stati più che complici di questo modo di pensare. E ci sarà continuità anche con l’esecutivo Monti, che è in predicato di fare un nuovo intervento da 20 miliardi.
L’origine di questa vana fatica contabile è da attribuirsi al 1992. All’epoca il governo Amato fece anche degnissime cose ( la trasformazione degli enti in Spa e primi seri interventi su pensioni e sanità), ma impostò la difesa della Lira (all’epoca era questo il problema, non gli spread) con una prima manovra da 30mila miliardi di lire e, dopo la svalutazione della nostra moneta che comunque arrivò, con un’altra botta da 95mila miliardi.
Quelle manovre vengono ancora incredibilmente ritenute un successo. Depressero l’economia per via del calo di consumi e investimenti che seguì e non salvarono la liretta.Passò l’idea che un governo serio debba fare male. Anzi, peggio fa e più serio è. Si tratta di una falsità.
Le manovre ci mettono a posto con le regolette di Bruxelles, ci puliscono la coscienza, ma non mutano lo scenario. Attraverso le manovre si cerca di mettere una toppa contabile ai clamorosi errori legislativi del passato, senza avere il coraggio di modificare le norme alla radice.
Non attribuiamo al governo Monti colpe che non ha. Ma ci permettiamo di dire, come facemmo con le manovre estive del Cavaliere, che la strada giusta per modificare il processo di crescita di questo Paese, non è una manovra finanziaria da 20-30 o dieci miliardi di euro. Immancabilmente avremo la medesima esigenza l’anno prossimo, così come l’abbiamo sempre avuta negli ultimi decenni.
Le manovre fanno male non solo perché deprimono l’economia, ma per la loro sostanziale ingiustizia. Essendo ab origine pensate per far quadrare i conti e non per ripensare il modello di spesa e entrata pubblica, agiscono sempre e solo sui medesimi tasti. Di cui quello fiscale è il preferito, per la banale circostanza che l’aumento delle entrate si fa in genere rimodulando le aliquote già esistenti e non inventandosi strumenti nuovi. Al contrario, il taglio della spesa, non nascendo da una riforma radicale ma da una manutenzione in corsa, è sempre difficile da fare e meno efficace nei suoi risultati effettivi.
Il caso eclatante è quello delle pensioni. Chi scrive ritiene che sia il capitolo (essendo con i suoi 230 miliardi il più corposo) su cui intervenire con maggiore decisione. Ma come si fa a cambiare dieci volte le regole del gioco? Come si può pretendere dai cittadini che i risparmi (che ripetiamo si debbono fare) si ottengano con escamotage contabili e un po’ truffaldini come le finestre di pensionamento? La previdenza è il caso eclatante del fallimento del metodo delle manovre. Tutti sanno che lì si deve andare perché c’è la «ciccia». E tutti i governi danno un colpetto. Ma nessuno ha il coraggio di mettersi al tavolo e ridisegnare un vero e nuovo patto sociale tra generazioni:l’unico che risolverebbe alla radice una spesa che fino al 2026 appare troppo onerosa per le nostre casse.
Continuiamo pure con le manovre.
Avremo la certezza di meritarcene un’altra l’anno prossimo e che a pagare saranno i soliti. E prima o poi il cavallo della nostra economia non solo non berrà, ma morirà di fame.
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