Politica

L'Italia dei senza casta

Cantami o diva dell’elettricista e del meccanico, dell’idraulico e del falegname, di quella gente che sembra senza storia, perché pochi hanno voglia di raccontarla

Cantami o diva dell’elettricista e del meccanico, dell’idraulico e del falegname, del macellaio e del venditore di scarpe, della parrucchiera e della signora della trattoria, di bottegai e mastri muratori, di tutta quella gente che sembra senza storia, ma solo perché pochi hanno voglia di raccontarla.

Questi qui sono più o meno dei «senza casta». Non è questione di soldi, povertà o di privilegi. È una cosa più sottile, che ha a che fare con il discredito, con i pregiudizi, con il disprezzo. Pensate a come vengono raccontati in Italia gli artigiani e i commercianti. Come sono narrati nei romanzi, nei film, nell’immaginario, nelle chiacchiere da ristorante e anche nelle redazioni dei giornali. Primo. Sono tutti evasori. A priori. Come un marchio d’infamia. Fai il meccanico? Evasore. Hai un negozio? Evadi. Il gioielliere? Condannato a prescindere. Secondo. Gli intellettuali di sinistra li considerano troppo volgari, quelli di destra troppo miseri. Sembra quasi impossibile che nelle case di un macellaio possano esserci libri. Il macellaio è quello che parla sguaiato, che va in vacanza e non sa stare al suo posto, quello eccessivo, che un tempo si svenava per i primi telefonini e ora rincorre un televisore a tre dimensioni. È il nuovo cafone. È l’evoluzione arricchita degli eroi tragici di Fontamara. È il bracciante che ha fatto fortuna. È così che li raccontano, caratteristi, maschere, personaggi senza spessore. Quasi mai si osserva la realtà con il loro sguardo. Poche eccezioni. C’era il mondo di Lucio Mastronardi, con il Calzolaio di Vigevano. C’è il Nord Est di Romolo Bugaro, ma con il distacco di chi si sente alieno dai suoi simili. Marco Malvaldi nei suoi gialli ha come protagonista un barista con villetta. Qualcuno suggerisce Nesi, ma la sua gente è quella dei piccoli imprenditori, non l’imbianchino, non il fruttivendolo. Quello che manca è l’epopea dell’artigiano o del commerciante, come per più di un secolo sono stati raccontati gli operai o gli statali, i professori o la grande borghesia, i precari o il sottoproletariato. Quelli che diventano eroi del nostro tempo.

Ora però guardatevi intorno. Guardate questa crisi e le saracinesche che chiudono, i consumi che viaggiano indietro di trent’anni, le banche che chiamano al primo scoperto, questo arrangiarsi senza paracadute. Non si parla mai del lavoro di questa gente. Questi che hanno tutti i rischi d’impresa ma nessuno chiama imprenditori. Se la crisi picchia su tutti a loro li sta strozzando. Andate a vedere le liste dei suicidi. È da questo mondo che vengono. Sono i lavoratori fai da te, quelli che senza articolo 18, che se stanno male devono aprire lo stesso bottega perché quel giorno non si guadagna, classe ibrida, fuori dal coro, né operai, né dipendenti, né statali, né piccoli o medi o grandi industriali. Solo commercianti. Solo artigiani.

E adesso che ci pensi c’è qualcuno che ha parlato di loro, raccontandoli con la preoccupazione e il disonore del fallito. L’ho ha fatto Steinbeck partendo da una citazione shakespiriana tanti e tanti anni fa, nel suo ultimo romanzo L’inverno del nostro scontento.

L’inverno è di nuovo arrivato, ma non abbiamo più la forza per raccontarlo.

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