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Benevento, tra le streghe ai piedi di un noce

Le streghe di Benevento tra storia e leggenda: chi erano le janare, che si riunivano ai piedi di un noce per i loro sabba, e i malefici

Benevento, tra le streghe ai piedi di un noce

Su Benevento aleggia da sempre la leggenda delle streghe, che in realtà rappresenta anche un pezzo di storia. La storia è quella della caccia alle streghe scaturita dall’Inquisizione e dettata dal “Malleus Maleficarum”, un libro che forniva le istruzioni su come annientare i fenomeni demoniaci. Le leggenda racconta invece i malefici come fossero reali nella credenza popolare. E nella cultura enogastronomica quello della strega è diventato una tipologia di liquore, utilizzato in gran parte della pasticceria campana e dell’intero Mezzogiorno.

Chi erano le janare

Janare
Illustrazione contenuta in "Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894"


Se in tutto il Sud Italia le streghe erano immaginate e temute, particolarmente vivida è la figura della strega di Benevento, ossia la janara. L’etimologia del termine è incerta. Alcuni credono che il nome sia legato al culto di Diana, portato dalla dominazione longobarda in queste zone insieme a un intero sistema di fede politeista che dapprima resistette, poi si compenetrò e infine fu sostituito dal Cristianesimo. Per altri il culto è più antico e legato alla venerazione sannitica e magnogreca di Cibele.

Altri pensano che il nome venga invece dal latino “ianua”, cioè porta. Come la porta delle stalle delle giumente, dove gli allevatori erano soliti cospargere grani di sale o lasciare una scopa sull’uscio per impedire l'ingresso alle "figlie della notte". Secondo la leggenda, le streghe, che rapivano di notte le giumente per cavalcarle e stremarle, non potevano resistere alla tentazione di contare i grani di sale oppure i fili della scopa di saggina. Ma c’è anche un’immagine letteraria legata ai sabba, le riunioni rituali, delle streghe: quella della porta del solstizio di inverno che scricchiola sui cardini, nella notte più lunga dell’anno, luogo di transizione tra bene e male, tra il mondo terreno e quello infernale. C’è anche chi ritiene che l’etimologia sia legata all’usanza delle janare di penetrare nelle case passando sotto le porte chiuse.

Dal XV secolo furono estorte con la tortura molte confessioni di stregoneria a donne beneventane, che poi furono mandate al rogo. Non resta molto di quelle testimonianze, parte delle quali furono distrutte volontariamente in epoca unitaria per evitare rigurgiti contro la Chiesa di Roma, e parte bruciarono nei bombardamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Le leggende sulle janare

Esistevano delle sottotipologie di janare, tra cui le zoccolare, che di notte terrorizzavano le persone tra i vicoli di Benevento, correndo tra il rumore dei propri zoccoli. C’era anche una janara chiamata Manolonga: era una donna morta cadendo in un pozzo, che tirava giù con lei tutte le persone che vi si affacciavano.

Secondo la leggenda, le janare potevano volare: reclutate dall’Arcistrega, si spalmavano addosso un unguento che glielo permetteva, dato che diventavano incorporee e potevano essere trasportate da venti di tempesta. A cavallo di una scopa, si riunivano nei sabba dove evocavano il diavolo e si dedicavano ad attività come succhiare il sangue ai bambini, provocare malefici sui neonati e sulle donne fertili, opprimere le persone dormienti sedendosi sul loro petto.

Il noce di Benevento

Fiume Sabato

Le janare utilizzavano come saluto una filastrocca, che recitava: "‘Nguente ‘nguente, manname a lu noci’ ‘e Beneviente, sott’ ‘ll’acque e sotto’ ‘o viente, sott’ a ogne malentiempe".

Il noce di Benevento, un antico e maestoso albero consacrato dai longobardi a Odino, era il luogo deputato per i sabba, come riporta nel suo volume in sei libri “De nuce maga” Pietro Piperno del 1647. L’albero doveva trovarsi secondo alcuni sulla riva del fiume Sabato, tanto che Piperno indicò che si poteva trattare del cosiddetto noce di San Barbato, mentre altri pensavano che l’arbusto dovesse trovarsi tra Benevento e Avellino in una gola chiamata Stretto di Barba.

La foto del fiume Sabato è di EvelinaRibarova via

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