L’ultima, questa: «L’appoggio dei Kennedy cambierà la corsa di Obama. Gli permetterà di prendersi il Massachusetts». La logica, i numeri, le alleanze. C’è tutto e funziona tutto, solo che poi finisce al contrario. Nello Stato dei Kennedy ha vinto Hillary. Questa è la campagna dei risultati che smentiscono le analisi, è l’elezione dei filoni sbagliati, dei giudizi troppo certi, della storia che sbaracca la politica.
Forse c’è troppo cervello e poco cuore. Forse nessuno ha considerato gli odori e le sensazioni. Allora queste erano le elezioni di Hillary Clinton, per tutti: «Lei la protagonista, la candidata inevitabile, la certezza». I democratici dovevano decidere se erano pronti per una donna e se quella donna potesse essere lei. Le settimane, la rincorsa di Obama, il momentum di Barack, ha stravolto le previsioni. Adesso l’America vuole sapere se ce la farà lui. Lei è diventata l’altra, quasi.
Sono le parti che s’invertono, il meccanismo che si ribalta. Come con i repubblicani: «La grande fuga degli uomini di McCain. Lasciano la campagna perché non ha speranza». Lo scrisse il Washington Post a luglio. Era così, davvero. Cioè, sembrava. «Troppo simile a Giuliani: lontano dall’ortodossia repubblicana. E se i conservatori dovranno scegliere tra il sindaco di New York e il senatore dell’Arizona, allora preferiranno Rudy». L’analisi se l’è portata via il venticello tiepido della Florida che ha spazzato Giuliani e ha rinvigorito le ossa di McCain. I calcoli, le ipotesi, le considerazioni: in questo cammino lungo, tortuoso e complicato che sono queste primarie i fatti hanno massacrato le parole. S’è letto ovunque: «Obama è considerato troppo bianco per sfondare negli Stati molto afroamericani». È arrivato l’Iowa, dove i neri sono così pochi da essere meno di una minoranza, e il concetto è tornato forte: «Visto? Obama ha vinto nello Stato più bianco d’America. È la dimostrazione che non sarà il candidato forte dei neri». Logico. Troppo logico. Così Barack s’è preso il South Carolina, la Georgia, l’Alabama, tre degli Stati con le percentuali più alte di afroamericani. E ha vinto grazie al voto dei neri.
Ecco, gli Stati. Le analisi erano cominciate un anno e mezzo fa. I commenti anche prima. Quale sarà quello decisivo? Previsioni, e scommesse. E su quelle previsioni e quelle scommesse i governatori si sono scannati in un gioco di ruolo estenuante. La Florida ha anticipato il voto. A rimorchio gli altri: la California voleva contare perché negli ultimi decenni arrivava quando i giochi erano fatti. New York uguale. Il supertuesday è diventato lo tsunami tuesday, con 24 Stati in ballo e la certezza che il 5 febbraio sarebbe stata la data chiave. «Dal 6 febbraio tutti penseranno alle presidenziali. I candidati dei due partiti saranno già decisi». La firma del New York Times, ma pure quella del Chicago Tribune e di tutti i commentatori del mondo. Il 6 febbraio è arrivato, è passato, e la corsa è aperta, di più spalancata. Neppure i repubblicani hanno trovato il nome. Anzi i delegati ballano, le cifre non tornano, ognuno fa un po’ come gli pare. Il ribaltone della previsione ha travolto le tv che adesso non s’azzardano più a fare pronostici. Il sondaggista Zogby, che aveva previsto la vittoria di 13 punti di Obama in California, s’è sotterrato dopo aver letto il 52 a 42 per la Clinton.
È l’emozione della gente che nessuno ha considerato abbastanza. Scavalca i numeri e sorpassa i politologi. Quelli che adesso fanno i conti con gli Stati che mancano. Nessuno aveva pensato di trovarsi il 7 febbraio a individuare un altro punto finale. Una data e un luogo.
Magari c’è: 4 marzo, Texas. Lo Stato che nessuno s’aspettava. Snobbato e abbandonato. Lo Stato che ha rappresentato Bush e la sua amministrazione: il presidente che tutti voglio sfrattare. Il paradosso dei paradossi. Il migliore. Il più bello.