A quasi 30 anni dallultima traduzione del Martin Eden di Jack London, in occasione dei cento anni dalla sua pubblicazione, era il 1909, finalmente una nuova edizione, appena uscita negli Oscar Mondadori con la curatela di Davide Sapienza, di quello che possiamo considerare il capolavoro dello scrittore americano. Affrancato dalleditoria per ragazzi in cui è stato sempre relegato, da Zanna Bianca a Il richiamo della foresta, London è, invece, tra i geni più sottovalutati del 900. Soprattutto in Italia, sin dalle prime edizioni dei suoi libri, è stato etichettato come un «epigono mal riuscito di Melville e Kipling», per usare le parole di Emilio Cecchi, o per citare Vittorini «un autore che non ha mai scritto nessun libro notevole». Giudizi pesanti che hanno contribuito a ghettizzare London. Solo negli ultimi anni si è compresa la potenza non solo narrativa di London, il suo essere «sismografo» del suo tempo. Contemporaneamente alluscita di Mondadori, arricchita da una lettera inedita in cui London spiega genesi e intenti di un libro da subito frainteso come un romanzo di (de)formazione per giovani scrittori, in contemporanea unaltra edizione pubblicata da Einaudi che viene presentata quasi come si trattasse di un altro libro. Rispettando tutti gli stereotipi del romanzo il Martin Eden einaudiano viene presentato come un «romanzo largamente autobiografico che riflette linquietudine di London».
Nulla di più lontano dal vero perché Martin Eden, come scrive lo stesso London tra le pagine del romanzo è una tragedia alleggerita dallironia che «vuole descrivere oltre il velo dei suoni il palpito e il battito della vita». Singolare che Il Corriere della Sera di ieri, in apertura della pagina di Cultura, abbia riportato solo la lettera inedita in Italia scritta da London insistendo non sullintenzione dello scrittore di chiarire la sua posizione di poeta libero e capace di costruire una fortezza da un mucchio di fiori, o di descrivere le miserie e le bassezze dellanimo umano, ma di chiarificare che il suo Martin Eden non è un romanzo socialista. Ma la vera volontà di London in questa lettera inviata al San Francisco Cronicle dopo il veemente attacco dellallora influente reverendo Brown, era dire che il successo (il titolo originale del romanzo doveva essere proprio Success) è solo il participio passato del verbo succedere, altro che inno al suicidio. Sin dal titolo, «Non è socialista il mio Martin Eden», sulle pagine del Corriere si vuole spiegare cosa è veramente Martin Eden mentre le intenzioni di London, come lui stesso scrive, «di fronte alle tante interpretazioni superficiali» sono di «chiarire cosa non è Martin Eden». La storia del marinaio rozzo che inseguirà a ogni costo le strade per diventare un autore affermato, sino a capire che la fama letteraria deve lasciare dei postumi e non dei posteri, dei lividi e non delle tracce, sono spiegate da London al di là di ogni interpretazione. Bastano le sue parole per comprendere gli intenti del libro e finalmente sfatare la leggenda che dopo la stesura del romanzo lo scrittore si sarebbe tolto la vita come il protagonista. London, come rivelano le note delledizione Mondadori, non morì per suicidio attraverso una ricercata overdose di morfina ma per le condizioni di un corpo martoriato dallabuso di alcol. Una morte che avverrà ben 7 anni dopo, a 42 anni.
Il vero senso di Martin Eden, per usare le parole dello stesso London, non è quello di scrivere «un romanzo più o meno socialista» ma di comporre unopera che facesse comprendere tutti i limiti della borghesia e dei suoi riti, di far capire cosa accade quando un uomo vuole andare «oltre se stesso» e, soprattutto, cosa significa davvero scrivere: non inseguire o proporre ideologie ma «soltanto» comprendere che si è davvero vivi. Con buona pace del socialismo.
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