Controcultura

"È l'ora in cui esplodono le disuguaglianze sociali"

Il sociologo: "Il criterio di discriminazione non è più solo il reddito ma anche lo spazio, per vivere bene"

"È l'ora in cui esplodono le disuguaglianze sociali"

È dalla metà del secolo scorso che Franco Ferrarotti, uno dei padri della sociologia italiana (nel 1961 fu il primo a ottenere una cattedra, alla Sapienza di Roma, dove è ancora Professore emerito), osserva e studia la società nel nostro Paese. E ora che sta per compiere 94 anni (dopodomani), occasione per la quale l'editore Marietti 1820 ha deciso di pubblicare le sue Opere, delle quali usciranno gli ultimi due volumi (di sei) proprio questo mese, la società sembra vivere uno stravolgimento inaspettato, causato dalla pandemia di Coronavirus, che ci ha costretti a rimanere chiusi nelle nostre case, a cambiare abitudini di vita, ad adattarci a forme nuove di studio e di lavoro e ad avere a che fare con nuove paure e nuove preoccupazioni per il futuro. «Io sono chiuso qui, nella mia casa di Roma, e passo il tempo studiando, scrivendo, lavorando. Per me non è cambiato molto, ma per molti, che devono andare a lavorare fuori di casa, è dura...».

Proprio a questo proposito, professore, la situazione in cui ci troviamo sta facendo esplodere le differenze sociali?

«In maniera tremenda. E le dirò di più: c'è questo monito del Governo, restate a casa, non uscite, che va assolutamente rispettato, ma... e chi non ce l'ha, la casa? E chi ce l'ha, ma è un piccolo appartamento, in affitto, dove bisogna vivere in due adulti con due figli, e tocca prenotarsi per andare in bagno?».

Quindi?

«Quindi bisogna restare a casa, ma serve una casa comoda. Se lo spazio non c'è, o se la casa è inadeguata?».

È l'unico modo per arginare il virus.

«Dobbiamo stare a casa ma, proprio il fatto di doverci stare, significa aggravare, e rendere evidenti sotto gli occhi di tutti, le disuguaglianze sociali».

La più evidente qual è?

«Quella che colpisce il ceto medio e medio-basso, che cominciava a stare bene, ma in gran parte ha delle abitazioni inadeguate».

Ci sono persone, magari genitori soli, con due o tre figli, che devono uscire per andare a lavorare. E intanto dovrebbero anche aiutare i figli con la scuola...

«Sperimentiamo le conseguenze della pandemia in termini di stratificazione sociale, una stratificazione resa insopportabile dalle condizioni in cui siamo costretti. Sono situazioni drammatiche. La novità è che, mentre fino a tre mesi fa usavamo come criterio della disuguaglianza il reddito disponibile e la sua sicurezza, oggi dobbiamo aggiungere una nuova dimensione, legata allo spazio vitale, il Lebensraum dei tedeschi, e che è diventato il segnale più netto».

E i soldi non contano?

«Una famiglia del ceto medio, o medio-basso, che stava bene, all'improvviso si ritrova chiusa in casa, con i figli che non vanno a scuola e, magari, qualche vecchio nonno: è un problema tremendo, e insolubile monetariamente. Non si tratta dei seicento o dei mille euro, non è questo il punto. Bisogna misurare fino a quando potremo sopportare una situazione del genere».

Molti sono chiusi in casa, in una situazione quasi insopportabile. Però chi può lavorare da casa è in una condizione di maggiore sicurezza rispetto a chi deve recarsi al lavoro, magari con i mezzi pubblici e a contatto con altre persone. Si crea un'ulteriore disuguaglianza?

«Laddove è possibile, in questo momento il telelavoro è un privilegio. Però la maggior parte dei lavoratori subordinati non può lavorare da casa, come i metalmeccanici, o chi lavora nell'agricoltura. Sembra quasi una vendetta della natura, o del destino, che il Presidente degli Stati Uniti debba ammettere che la raccolta delle derrate è in una situazione di grave crisi, perché mancano i messicani che vanno a lavorare in California... E così avviene al Sud, dove gli ortaggi vanno a male, e si stima una perdita del 30 per cento».

Il telelavoro è un'opportunità?

«In una situazione così grave e di emergenza, per chi può, e può farlo decentemente, il telelavoro è una soluzione. Ma attenzione, il lavoro non è solo lavoro, è anche l'ambiente di lavoro, i compagni e le compagne: è un fatto sociale, non solo tecnico-produttivo, e questo aspetto si perde».

L'ambiente di lavoro è così importante?

«L'ambiente di lavoro a volte è tremendo, con gli screzi, i pettegolezzi, gli amorazzi e tutto quello che chiunque abbia lavorato in fabbrica o in ufficio conosce, o il mobbing fra impiegati... Però è importante e ha una sua funzione sociale, che viene meno nel telelavoro. Il telelavoro è una forma di distanziamento sociale che testimonia il venir meno della insiemità della società: è asociale, se non addirittura antisociale».

Ma in questo momento...?

«È il male minore, perché siamo in una situazione drammatica. Però questo dramma, questo virus, fa emergere anche la fragilità e i limiti del nostro delirio di onnipotenza tecnica. Fino a pochi mesi fa si parlava di tornare sulla Luna, di andare su Marte, dei robot che ci avrebbero sostituiti sul lavoro, che ci avrebbero fatto da badanti. Erano vaneggiamenti...».

La tecnica però ci aiuta.

«La tecnica è un valore importante ma, appunto, tecnico: è una perfezione priva di scopo, non ci dice da dove veniamo, non ci dice dove siamo e non dice nulla su dove andremo. La tecnica va governata. Grazie a questa sciagura siamo usciti dall'illusione che con la tecnica si possa risolvere tutto: ci sono dei valori strumentali, come la tecnica, e ci sono valori umani, come la giustizia sociale, il riconoscimento del valore della persona, il senso di uguaglianza, che questa terribile situazione ci fa riscoprire nella loro universalità».

Secondo le stime, una famiglia su cinque non può far seguire le videolezioni ai figli. Anche sulla scuola si misura la discriminazione?

«Secondo me questo numero è anche troppo positivo. Le famiglie italiane non possono offrire ai figli questi strumenti, ad alcuni servirebbero almeno tre computer... Questa è un'altra dimensione che misura la disuguaglianza sociale. E comunque la telelezione non risolve il problema: non c'è surrogato del rapporto diretto, faccia a faccia, fra l'insegnante e i suoi studenti».

E dopo, quando l'emergenza sarà finita, che cosa succederà?

«O si penserà, o meglio ci si illuderà, di poter tornare al mondo com'era prima, oppure - spero - i gruppi di chi governa e di chi influenza l'opinione pubblica capiranno che dobbiamo uscire da un sistema in cui il profitto, che è necessario, come indice sicuro di gestione razionale di un'impresa, sia concepito solo in termini di contabilità. Dovremo considerare le condizioni minime indispensabili per l'equilibrio eco-sistemico della società».

Che significa?

«Produrre a misura d'uomo. Non pensare solo alla massimizzazione cieca e furiosa del profitto, che può rompere l'equilibrio della comunità, e di cui oggi paghiamo un prezzo duro: serve un nuovo concetto di sviluppo, ritmato sulle esigenze dell'uomo, che non sono illimitate e assolute. Come diceva il mio maestro Adriano Olivetti, bisogna industrializzare senza disumanizzare. Sa, ho sempre pensato che la globalizzazione fosse quella delle grandi multinazionali».

E invece?

«La vera globalizzazione la sta realizzando il virus: colpisce tutti in tutto il mondo, nessuno è escluso.

Questa è una esperienza davvero globale, una sfida tremenda e se, dopo, torneremo al mondo com'era prima, sarà la fine».

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