Per sua natura, lo statalismo è pervasivo e tentacolare, insinuandosi in ogni ambito della società. Il potere sta sì nei gangli della capitale (il «Palazzo» di pasoliniana memoria), ma egualmente nelle innumerevoli strutture che il governo centrale predispone e che da esso dipendono: negli apparati burocratici come nelle aziende statali e municipalizzate, come nelle amministrazioni locali.
La rivolta organizzata dai sindaci e dagli assessori dei piccoli Comuni destinati a sparire, che ieri hanno invaso Torino, allora, esprime assai più la frustrazione di questa parte del ceto politico che non la preoccupazione dei cittadini, perché saranno solo i primi in qualche modo dovranno pagare un prezzo. Essi perderanno la fascia tricolore, insieme al podio tribunizio e al prestigio costruito negli anni, mentre per la gente comune non cambierà un bel nulla. In Italia, infatti, i dipendenti pubblici sono inamovibili e per gli uffici si può dire sostanzialmente la stessa cosa, così che il risparmio derivante dalla cancellazione di assessori e sindaci non comporterà una riduzione dei servizi per chi vive nelle collettività accorpate.
La decisione di questi giorni, va aggiunto, è anche una conseguenza del fatto che questa classe politica italiana che - da destra a sinistra, passando ovviamente per la Lega - si dichiara federalista a ogni più sospinto, in realtà non lo è per nulla. Se infatti in Parlamento ci fosse qualcuno consapevole di cosa significhi un ordinamento federale, questi si batterebbe per far sì che i Comuni si finanzino con una propria tassazione (senza ricevere un euro dall’alto) e a delineare, grazie ad accorpamenti spontanei, quale sia la dimensione ottimale in questo o quel caso. Se uno se li paga da sé, in fondo, può anche concedersi dei lussi.
Negli ultimi vent’anni non si è però fatto nulla in direzione del federalismo, né si vedono proposte che vogliano davvero attribuire autonomia impositiva e gestionale agli enti locali, responsabilizzando gli amministratori e spingendo i contribuenti a operare una maggiore vigilanza. Il risultato è che i Comuni sono in larga misura semplici centri di spesa, la cui vocazione a sprecare risorse è solo destinata ad aggravare il dissesto della finanza pubblica. Nel quadro attuale, ognuno di noi sa bene che un incremento delle uscite della sua amministrazione cittadina non ha necessariamente conseguenze sul prelievo che grava su di sé, e quindi non è motivato a far sì che le spese siano ridotte e razionalizzate.
Le cose sono assai diverse nei Paesi federali, dove non è raro che si abbiano anche Comuni piccolissimi, dato che in quel caso l’onere grava direttamente su quegli abitanti (e non sul resto della collettività). Fino a quando non ci si dirigerà in tale direzione, abbandonando al suo destino quella parodia del federalismo fiscale su cui abbiamo perso tempo negli ultimi anni, tagliare le spese dei municipi significa essenzialmente incidere sulla proiezione localistica del potere romano e, in sostanza, sullo spreco nazionale che sta mettendo a serio rischio il nostro futuro.
È chiaro che chi non potrà più essere sindaco o assessore, perdendo la facoltà di gestire il piano regolatore e finanziare le feste di piazza, ora si lamenta. E nessuno s’illuda che questi signori siano disposti a mettersi da parte senza reagire.
Oggi i sindaci delle realtà minori strillano, ma ieri stavano in silenzio quando il sistema accorpava nella Capitale la tassazione e quindi allontanava sempre di più il momento del prelievo e quello della spesa.
In quel momento andava bene che le imposte fossero in larga misura decise dal ministro delle Finanze, e sostanzialmente eguali in tutto il Paese, così che a loro spettava quasi soltanto il piacere di spendere e spandere.Ma ormai la casa brucia e ogni risparmio è virtuoso. Se poi ridimensiona sensibilmente i ranghi della Casta, meglio ancora.
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