Controcultura

La lucida follia di Barrett, il Van Gogh del rock

Escono i testi delle 52 canzoni scritte dal leader dei Pink Floyd prima di sprofondare dentro se stesso

La lucida follia di Barrett, il Van Gogh del rock

Si può cambiare il mondo della musica con uno striminzito canzoniere di 52 brani, pari a quattro album e un pugno di singoli? Roger Barrett, detto Syd, ci è riuscito. Dire Syd Barrett significa dire Pink Floyd. I migliori Pink Floyd, quelli degli esordi, un gruppo psichedelico innovativo, non ancora prigioniero della discografia e della necessità di soddisfare un narcisismo fuori scala con dischi e concerti sempre più segnati dalla megalomania.

Syd Barrett emerge come un folletto da Cambridge, si iscrive a una scuola d'arte londinese, incontra il concittadino Roger Waters, entra nella band dell'amico, ne diventa subito il leader e trova anche il nome definitivo: The Pink Floyd Sound per un breve periodo e poi Pink Floyd e basta. Syd scrive la maggior parte di The Piper at the Gates of Dawn, l'inarrivabile esordio dei Pink Floyd, la massima testimonianza dell'artista Barrett e il disco simbolo di un'epoca. I Pink Floyd, in pochissimo tempo, passano dal suonare blues, con bizzarri assoli dissonanti, al mettere in musica i sogni e i deliri della generazione psichedelica. Barrett si interessa troppo alla pratica LSD e firma la sua condanna alla morte in vita. Assume dosi sempre più pesanti di acidi, ma fatica a rientrare dai trip, i viaggi nel mondo imprevedibile creati da questo tipo di droga. Leggenda vuole che i coinquilini preparino tazze di tè corretto LSD per il caro Syd, che berrebbe la pozione magica a sua insaputa. Comunque stiano le cose, Barrett perde il controllo della situazione. La creatività scatenata finisce in catene. Sul palco diventa il fantasma di se stesso. Negli ultimi spettacoli suona una sola nota per tutta la durata dello show. Gli altri Pink Floyd reclutano un altro chitarrista di Cambridge, uno dei migliori amici di Syd. David Gilmour fa così l'ingresso nei Pink Floyd, marchio di cui decenni dopo diventerà, con Nick Mason, il proprietario. Ci vorrà però una battaglia legale tremenda con l'ex compagno Roger Waters, ormai il nemico numero uno.

Ma restiamo negli anni Sessanta. Arriva una sera i cui si è fatto tardi, i Pink Floyd sono attesi per una esibizione. Non passano a prendere Syd Barrett, che esce così, mestamente, dai Pink Floyd. Seguiranno due dischi da solista, realizzati con l'aiuto decisivo di David Gilmour. Syd non è più Syd. Resta barricato nel suo appartamento di Chelsea. Ha seri problemi psichiatrici. La famiglia se lo riporta a Cambridge. Barrett dice addio al rock, allo show business, alla fama. Trascorrerà i decenni che lo separano dalla morte chiuso nel seminterrato di sua madre a dipingere, la sua prima passione. Più Syd sprofonda, più i Pink Floyd conquistano le classifiche mondiali. Nel 1975, la band sta provando in studio quando un signore di passaggio si ferma ad ascoltare e sentenzia: «troppo triste». Infine qualcuno capisce chi è l'intruso: un irriconoscibile Syd Barrett. Seguono lacrime. Syd è diventato un fantasma, si diceva. Ecco un'apparizione inquietante. David Gilmour sfoglia alcune vecchie foto del periodo di Wish You Were Here. Ce ne sono alcune su un campetto da calcio, i Pink Floyd si rilassano col football, in compagnia dello staff. David Gilmour nota la presenza di qualcuno che guarda la partitella. Improvvisamente sente una fitta al cuore: il curioso è Syd Barrett. A suo modo, Barrett si sentiva ancora un Pink Floyd, in fondo è corretto affermare che i Pink Floyd siano la band innanzi tutto di Syd.

Il genio di Syd si esprimeva anche nei testi: viaggi cosmici, travestitismo, fiabe e soprattutto apparenti non sense che sono una discesa nella mente di un uomo al limite della schizofrenia. Ora il canzoniere di Syd diventa un libro per ora solo in inglese: The Lyrics of Syd Barrett. Una splendida edizione (Omnibus Press) con prefazione di Peter Jenner, primo agente dei Pink Floyd, e introduzione di Rob Chapman, biografo di Syd. Magnifico l'apparato fotografico, che include anche i quadri di Syd. Barrett si dichiarava lettore debole e occasionale. Però le sue canzoni prendono in prestito le parole di James Joyce, Hilaire Belloc, Henry Longfellow, William Shakespeare, Geoffrey Chaucer e molti altri. Barrett si dichiarava refrattario alla poesia ma scopriamo, grazie a Chapman, che le sue canzoni sono metricamente solide. Per questo si possono leggere sulla carta senza provare imbarazzo (come accade di solito per molti presunti o sedicenti cantanti-poeti).

Nato nel 1946 e morto nel 2006, la parabola musicale di Barrett è durata circa dieci anni, iniziando a contare dai brani del 1965 rimasti inediti fino al monumentale cofanetto di pochi anni fa: Pink Floyd, The Early Years, volume 1965-1967. Eppure l'influenza di Barrett è incalcolabile. Gli spettacoli dei suoi Pink Floyd erano multimediali ante litteram, con uso delle luci pittorico. Il suo stile alla chitarra solista ha portato l'improvvisazione totale nel rock, come nel brano manifesto Interstellar Overdrive. Certi esperimenti con l'elettronica sarebbero inconcepibili senza The Piper at the Gates of Dawn. I testi hanno ampliato i temi che si possono trattare nel formato rock. L'uomo però non faceva solo viaggi interstellari. Fece un viaggio senza ritorno dentro a se stesso, in cerca del seme della creatività. Si è perduto. Non è mai tornato indietro del tutto.

Barrett amava dipingere. E proprio nel mondo dell'arte si trova lo spirito più affine a lui.

Sì, perché Syd Barrett è stato il Vincent Vang Gogh della musica rock.

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