Controcultura

L'ultimo Solzenitsyn "sovranista" prima di tutti

Nell'antologia «Ritorno in Russia» gli interventi dopo l'esilio. Alla ricerca della vera identità russa

P rofeta di una Russia che avrebbe voluto veder risorgere in forme nuove dalle rovine del comunismo, Aleksandr Solenicyn nell'estate del 1994 percorse in treno, a tappe, l'immenso territorio post sovietico fra Vladivostok e Mosca. Rientrava dopo vent'anni di esilio trascorsi prima in Europa e poi nel Vermont; tornava non solo nei panni del celebre premio Nobel, ma anche, e soprattutto, come primo testimone d'accusa dell'Arcipelago Gulag, lui che era stato capace di trasformare l'immane tragedia dei lager, sperimentata di persona, in epopea letteraria sulla resistenza al terrore. Il diario intellettuale di quel viaggio leggendario, compiuto attraverso più di quindici città dai nomi esotici come Ulan-Ude o Irkutsk, ci viene restituito dall'antologia Ritorno in Russia, pubblicata ora dalla Marsilio con un presentazione del figlio Ermolaj, che fu al suo fianco durante il pellegrinaggio. È attraverso le considerazioni dello scrittore, e grazie alla registrazione dei suoi discorsi pubblici e delle conversazioni (...)

(...) private, che si compone l'affresco di una Russia appena uscita dal tunnel della dittatura, turbolenta, incattivita e spaventata, ma nella quale tutto sembrava possibile. Ad ogni fermata, senza che Solzenicyn abbia bisogno di descriverla, percepiamo la presenza intorno a lui di folle disordinate, ignare, isteriche, sospettose o apertamente disperate, apprensive o untuosamente interessate ai suoi favori, che si accalcano per ascoltarlo, interrogarlo, incensarlo o accusarlo, e più frequentemente per affidargli qualche supplica da recapitare alle autorità moscovite. Proprio come un profeta finalmente riconosciuto in patria, Solzenitsyn con puntiglio risponde a tutti, spiega il suo punto di vista, prende migliaia di appunti. Ma nonostante un tale sfoggio di impegno e razionalità, si coglie fra le righe il suo doloroso smarrimento di fronte alla disgregazione in corso della compagine statale russa; era come se la patria cui lo scrittore in esilio aveva dedicato tutti i suoi studi e la vita letteraria, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto risorgere, andasse invece spegnendosi sotto i suoi occhi. Ogni abitante di villaggio, dipartimento, distretto, repubblica autonoma della grande Federazione si stava isolando sempre più dagli altri, preoccupato unicamente della propria sopravvivenza, tagliato fuori anche per ragioni economiche da ogni comunicazione con Mosca. Il tasso di natalità era in rapido declino, tanto che i russi parevano sul punto d'essere travolti dalle prolifiche nazionalità periferiche in cerca di indipendenza. Venticinque milioni di russofoni - come Solzenitsyn non si stanca di denunciare - erano stati semplicemente dimenticati, esiliati oltre i nuovi confini post sovietici, abbandonati a se stessi e sgraditi in patria, a volte paradossalmente discriminati dalle autorità locali pur costituendo numericamente la maggioranza della popolazione.

Di fronte a queste ferite aperte Solzenitsyn non si stanca di elencare i capisaldi della sua filosofia politica: liberarsi da qualsiasi nostalgia del passato comunista, macchiato dal sangue di sessanta milioni di imprigionati, torturati, fucilati, assiderati; salvare il salvabile della unione slava, mantenendo l'unità della Russia con l'Ucraina, il Kazakistan e la Bielorussia; recuperare l'identità nazionale e i suoi valori senza gettarsi a capofitto nel consumismo e scimiottare le mode occidentali.

Proprio queste perorazioni appassionate oggi sottolineano l'ingrato compito toccato al profeta Solzenitsyn: inutilmente invocato da molti come ideale presidente e invece fermamente legato al suo ruolo di guida esclusivamente morale, ma allo stesso tempo costretto a sporcarsi le mani con l'attualità, l'economia e la politica.

Forse non poteva andare diversamente: la chiaroveggenza di tante sue analisi storiche, maturate nella lontana, studiosa solitudine del Vermont, era accompagnata da un cauto distacco rispetto alla pentola in ebollizione della realtà russa. A rileggere i suoi discorsi, Solzenitsyn sembra un uomo di oggi quando invoca la democrazia dal basso, l'introduzione dei referendum popolari, la lotta allo strapotere dei partiti, la difesa dell'ambiente dall'aggressività del profitto indiscriminato e del consumismo, un atteggiamento critico nei confronti della tecnologia. Ma è anche impietoso quando demolisce totalmente l'operato, pur storicamente rilevante, di uomini come Gorbaciov e Eltsin. Invoca un sano equilibrio fra centralismo presidenziale e ritorno allo zemstvo, l'organizzazione territoriale autonoma prerivoluzionaria, ma non dà peso al progressivo accentramento autoritario del potere putiniano. Smaschera i nuovi partiti russi, finanziati e per lo più al servizio degli oligarchi, ma non coglie la necessità, pur sempre impellente per l'opposizione, di parlare con una voce abbastanza forte da essere ascoltata nell'aula della Duma. Bolla giustamente come irresponsabile la liberalizzazione selvaggia dell'economia e dei prezzi attuata dai ministri ultra liberali, senza però tener conto della enorme forza d'inerzia del vecchio sistema, con la quale era necessario fare i conti se non si voleva tornare indietro. Chiede con accenti commoventi una mobilitazione dei cuori e delle menti contro la corruzione e la criminalità dilaganti, senza però additarne le radici nello stesso sistema sovietico che le aveva coperte e nutrite dietro alle insegne del partito comunista. Condanna l'holodomor, cioè la strage per fame decretata da Stalin ai tempi della collettivizzazione forzata, ma rifiuta con orgoglio russo di considerarlo un genocidio, programmato in particolare ai danni del popolo ucraino. Accusa le «rivoluzioni arancioni» di essere state finanziate dall'Occidente, senza vederne anche il germe di risorgimento nazionale e l'aspirazione all'indipendenza. E lascia in secondo piano il sorgere di un nuovo totalitarismo incombente, quello islamista; pur denunciando le sue manifestazioni in Cecenia o in Bosnia, durante la guerra civile jugoslava, ritiene opportuno concentrarsi piuttosto sugli interessi e la sopravvivenza della Russia.

È questo singolare strabismo ideologico di Solzenitsyn a renderlo suggestivo, e allo stesso tempo così distante dal modo di sentire oggi comune in Occidente. L'autore di Una giornata di Ivan Denisovic si definisce conservatore, cioè «difensore delle migliori tradizioni della vita del popolo, che si sono dimostrate buone e sagge nei secoli». Questo lo induce a porre sullo stesso piano, nella medesima famiglia ideologica, sia i marxisti che i liberali, entrambi figli dell'illuminismo ateo, anzi «umanista», cioè convinto che il mondo possa essere redento senza alcuni intervento divino. In questo «umanismo» globalista e ateo Solzenitsyn riconosce un nuovo totalitarismo montante, affine a quello che oggi chiamiamo pensiero unico, e radicalismo di massa. Il veleno di cui si nutre, afferma, è il materialismo, la ricerca sfrenata del piacere e delle ricchezze, cui contrappone «l'autolimitazione», cioè «la capacità di imporsi volontariamente un freno, rinunciando ad espandersi e a trarre profitto a qualsiasi costo e ovunque».

Venticinque anni dopo quella predicazione itinerante «a tutte le Russie», l'utopia conservatrice di Solzenitsyn mantiene il suo carattere grandioso e visionario. Che diviene fulminante quando, ritornando al terreno prediletto della letteratura, l'autore de Il primo cerchio ci spiega come la discesa agli inferi del gulag fosse paragonabile a una Divina Commedia rovesciata.

Una volta entrati, più si era innocenti più si era sprofondati in basso, nei gironi oscuri del dolore.

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