Lumumba è libero «Ringrazio Dio è finito l’incubo»

dal nostro inviato a Perugia

«Ringrazio Dio, finalmente posso tornare a casa. Fatemi tornare a casa». Mancano sei minuti alle 17, il sole è tramontato da un po’ sul carcere di Capanne e il freddo è pungente, ma Patrick Diya Lumumba è raggiante. Torna libero, e il primo pensiero è per Dio, che aveva già chiamato a testimone giurando di non saper nulla della morte di Meredith di fronte al gip di Perugia Matteini: «Sono innocente, e Dio lo sa».
La Procura è d'accordo solo a metà. Ma intanto, ieri, lo stesso gip ha firmato l’ordine di scarcerazione. «Non ci sono indizi sufficienti per tenerlo in prigione», spiegano gli inquirenti, sottolineando comunque che il barista congolese resta nell’inchiesta. Potrebbero arrivare sorprese e colpi di scena dagli accertamenti della scientifica sulle tante tracce ritrovate nella casa dove la studentessa inglese Meredith Kercher è stata uccisa e nelle abitazioni degli indagati. C'è un giallo, per esempio, su tre reperti sequestrati a casa di Raffaele Sollecito. Il sangue sui suoi boxer potrebbe essere di Meredith, anche se gli avvocati del barese insistono: «È di Amanda». Tracce ematiche dell’inglese sarebbero state trovate anche sullo straccio e sulla spugna sequestrati nel secondo sopralluogo a casa di Raffaele, ma i legali del ragazzo smentiscono.
Intanto l'uomo indicato da Amanda Knox come assassino della 21enne londinese lascia Capanne alzando gli occhi al cielo. È stanco ma felice. Uscendo dal penitenziario nemmeno si accorge di quanto poco sia adatto il suo abbigliamento - la stessa maglia verde che indossava quando è stato arrestato - a questo gelido pomeriggio. Sorride, ringrazia gli «amici perugini» e quasi si fa trasportare di peso, sottobraccio, dagli avvocati Carlo Pacelli e Giuseppe Sereni, fino alla Volkswagen dei suoi legali. «È entrato mostro, è uscito vincitore», dice Sereni, mentre Patrick ripete solo «devo tornare a casa» e ignora la folla di cronisti che l’assedia, chiedendogli se conosce il «quarto uomo» Rudy Hermann. Una corsa verso casa, a Perugia, poi il primo bacio con la moglie, Alexandra. «È finito un incubo cominciato quando la polizia ha bussato alla porta e mi ha portato via», sospira. Non dice altro. Il peso dell'accusa e il carcere lo hanno provato, e poi pare che abbia già concordato la sua prima intervista, esclusiva e ben retribuita, con un domenicale britannico.
Secondo «FoxyKnoxy» Lumumba è l'uomo col coltello: Amanda ha detto che Pat, invaghito di Mez, il 1° novembre non aprì il pub, le diede appuntamento per sms in piazza Grimana, da lì andarono insieme nella casa di via della Pergola dove il congolese avrebbe fatto sesso con Meredith per poi ucciderla. Ma Patrick ha sempre respinto le accuse, ripetendo come un mantra il suo alibi: «Non sono uscito dal mio pub, la sera del primo novembre». Non ha mai cambiato la sua verità, messa a verbale già nell'interrogatorio di garanzia, l'8 novembre: «Quella sera non ho visto Amanda, non sono solito frequentare il campetto di piazza Grimana, non ho mai detto ad Amanda che mi piaceva Meredith, e non mi piaceva». Ammazzarla? «Nego di aver ucciso Meredith, sono innocente e Dio lo sa».
Il mistero del messaggio sms spedito ad Amanda, però, non è mai stato risolto. Per l'americana Patrick la sera del delitto le aveva scritto «Oggi non apro il pub», e sarebbe stato un segnale per l'incontro concordato tra i due per far visita a Meredith, confermato dalla risposta della ragazza: «See you later», «a dopo». Per il congolese, il testo era diverso: «Non venire, ci sono pochi clienti». Ma il messaggio, che Amanda ha cancellato dal cellulare, è irrimediabilmente perduto. «Resta solo la traccia della spedizione, alle 20.18, ma nulla sul suo contenuto», sospirano gli inquirenti.

Per ora, insomma, ha vinto lui: non c'è nulla che lo colleghi alla morte della ragazza inglese, al momento, se non due dei tanti «racconti» fatti da Amanda, che la procura però non ha esitato a definire «spregiudicata mentitrice».

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