La lunga notte di una pianista innamorata

Un articolo di Umberto Eco giovane faceva ironia sulle scrittrici dal doppio cognome, che comparivano (compaiono?) in favolosi dizionari della letteratura italiana contemporanea con voci lunghe magari 50 o 100 righe, rispetto ad altre più succinte dedicate ad autori semiconosciuti (genere: Alessandro Manzoni, scrittore lombardo. Ha scritto fra l’altro I promessi sposi).
Lorella Pagnucco Salvemini porta un doppio cognome, ma che si sappia non figura in nessuna antologia farlocca. Condirige infatti una nota rivista d’arte e, con Marsilio, ha già pubblicato Gli occhi sul samovar, romanzo d’ambiente russo molto ben accolto dalla critica. Il racconto lungo Notte in fa minore (Marsilio, pagg. 103, euro 10) è testo che ha in comune col primo la passione per l’Oriente, che si concreta qui in una notte d’attesa della pianista svizzera Eléonore per il suo amante arabo. Non è uno spunto narrativo dei più originali e Pagnucco Salvemini sceglie allora di affrontare la materia romanzesca in chiave parodistica di un gusto oggi impronunciabile, di certo da tempo fuori delle mode estetologiche: il kitsch (nel caso, si capisce, almeno neokisch o metakitsch).
Per farlo, racconta i 40 anni della sua pianista in un flashback dal passo sinuoso, in cui alla donna tocca in sorte ogni genere di sventura. Consegnata a 6 anni dai genitori a un collegio cattolico, vi scopre l’ipocrisia insieme al sapone di Marsiglia e alla sciatteria, propedeutica a un buon matrimonio. Insieme, vi perde l’innocenza, a opera del suo padre confessore, che con tanta attenzione ascoltava i suoi irrisori peccati sessuali. Abortisce, e s’innamora del ginecologo che le toglie il figlio da lei non desiderato: ma il laico è peggio del consacrato, per quanto male tratta la moglie, di cui Eléonore fa in tempo a invaghirsi, prima ch’essa si tolga la vita. Passate queste tempeste, arriva il tempo dell’amore libero, o meglio della concessione gratuita di un corpo che con ogni evidenza la pianista, nel frattempo divenuta stella internazionale, disama.
L’inizio e la chiusura del libro sono riservate alla descrizione del complicato rapporto con l’arabo, amante ovviamente sfuggente e raffinato, non più giovane e proprio per ciò molto fascinoso. Alla fine, che non è corretto svelare, il lettore ha la vaga sensazione di aver già ascoltato questa storia, ma non riesce a nascondere il suo compiacimento per aver trovato chi ancora la raccontasse. Shahrazàd moderna, la narratrice è consapevole che nulla più si può dire che non si sia già detto. Se pure lo si fa, è perché l’uomo ama le storie: e quello del nuovo secolo le predilige magari con gli angoli smussati a dovere, le parole tenui che si alternino a quelle quasi infuocate, ma senza che né le une né le altre diano troppa importanza alla questione del senso, che tanto ha gravato sulla scrittura d’invenzione del XX secolo.
Oggi si può stare alla superficie, non essere banali e risultare anzi gradevoli, dire cose seminuove su temi difficili (la coesistenza obbligata di Occidente e Oriente) ma tutto come fosse una lunga, estenuante e piacevole danza dei sette veli.

Lettura distensiva come poche altre, Notte in fa minore lascia la sensazione inconsueta di essere il prodotto di una donna che ha molto amato la vita e si diverte a metterla in maschera; meglio se desueta, come appunto quella del kitsch.

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