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L'università fa il suo dovere? No, produce scartoffie woke

L'università fa il suo dovere? No, produce scartoffie woke

Quando un professore ordinario lascia l'università in anticipo, la notizia preoccupa un po'. Se poi a farlo è un italianista come Enrico Testa studioso sobrio, poeta appartato, poco incline alle pose e alle invettive la faccenda diventa sintomatica. Non un capriccio, non una fuga romantica, ma una constatazione affidata a un'intervista rilasciata a Giuliano Galletta del Secolo XIX: "Mi sento postumo a questa università". Naturalmente non è un'allusione all'età anagrafica, ma uno scarto di senso: l'università è andata avanti ma ha imboccato la direzione sbagliata.

La domanda, allora, è semplice e scomoda: l'università fa ancora il suo dovere?

Se per dovere intendiamo produrre moduli, tabelle, report, indicatori, ranking, allora sì: l'università è in piena salute. Se invece il dovere è fare ricerca vera, insegnare seriamente, trasmettere sapere critico, allora la risposta si complica. Ed è proprio qui che l'esperienza di Testa diventa esemplare, perché non parla da nostalgico né da polemista di professione. Dice, con una chiarezza quasi imbarazzante, ciò che quasi tutti pensano e pochi scrivono, almeno nelle facoltà umanistiche. L'uscita, clamorosa, è stata accolta dal tipico silenzio che accoglie la schiettezza (con l'eccezione di Paolo Di Stefano sul Corriere della sera). Sui social network qualcuno si è preso la briga di commentare senza andare troppo lontano da "io l'avevo detto". Ma a chi? Boh.

Il primo nodo, comunque, è la trasformazione della ricerca in produzione seriale. Testa parla di "mito dell'accelerazione" e di "sindrome della produttività incasellata in valutazioni numeriche dai criteri oscuri". È una formula elegante per descrivere un meccanismo ormai noto: pubblicare molto, pubblicare in fretta, pubblicare dove conviene. Non importa tanto cosa si scrive, ma dove si colloca il saggio, con quale indice, in quale fascia. La conoscenza smette di essere un lungo processo e diventa una rapida catena di montaggio. Testa: "La conoscenza si configura come una raccolta quantitativa di dati generata dalla spinta a sfornare il maggior numero possibile di prodotti nelle sedi adatte. Chi scrive è un tecnico al servizio di un'istituzione-macchina, a cui procura il rifornimento perché continui, non si sa perché, a funzionare. Un meccanismo della saturazione produttiva che s'è esteso dal mercato al mondo delle lettere per opera di spiriti progressisti che finiscono per agire da servi del consumo". Problema. Lasciamo perdere gli scrupoli morali di una generazione scomparsa di maestri. Ti dicevano: si pubblica solo in presenza di un documento nuovo o dopo dieci anni di lavoro. Tanti saluti a un mondo che si è inabissato. Però almeno si potrebbe evitare di valutare la ricerca un tanto al chilo. Le tremila battute (un quarto di questo articolo) con il quale Gianfranco Contini mandò Benedetto Croce in pensione non possono valere meno di una montagnola di saggi con i quali puoi incartare il pesce per un anno. Qui l'università tradisce una delle sue caratteristiche originarie: il tempo lungo del pensiero. Le scienze umane, in particolare, non producono risultati a scadenza trimestrale. Hanno bisogno di lentezza, di sedimentazione, perfino di errori. Si dirà che il sistema è già stato corretto. Forse è un'impressione dettata dalla facilità delle comunicazioni. Ma le bibliografie sembrano crescere a un ritmo diabolico, salvo scoprire la modestia della quasi totalità degli articoli.

Il secondo nodo è il conformismo tematico. Testa non usa giri di parole: l'agenda della ricerca segue l'eco dei media e delle parole d'ordine dominanti. Inclusione, studi post-coloniali, antioccidentalismo, linguaggi sensibili: temi legittimi, talvolta necessari, ma che diventano tossici quando si trasformano in obblighi morali e scorciatoie concorsuali. Non è la presenza di questi studi il problema ma il fatto che monopolizzino lo spazio simbolico e finanziario. I fondi vanno dove soffia il vento giusto; il resto sopravvive ai margini, quando va bene. Testa: "Mi riferisco alla gran voga degli studi post-coloniali e a quanto s'ispira all'antioccidentalismo. Tutto questo è molto progressista ma anche molto servile; proprio perché s'adegua a parole d'ordine che non ammettono repliche e che sanciscono il distacco dalla funzione primaria dell'università: l'esercizio dello spirito critico. Da qui un ibrido singolare di progressismo e conformismo". Sono accuse gravi.

Emerge un paradosso non solo italiano: l'università che si proclama critica finisce per essere allineata. Progressista nei proclami, conformista nelle pratiche. E chi non si adegua non viene censurato apertamente, ma semplicemente ignorato. Una forma di esclusione più efficiente, perché priva di scandalo. In fondo, al di là delle ricostruzioni di alcuni giornali, è forse questo il tema posto da Donald Trump nel suo attacco contro Harvard.

Il terzo nodo è quello che Testa chiama, con felice brutalità, buroprofessocrazia. Non è una battuta, è una diagnosi. La carriera accademica non premia più principalmente la qualità scientifica, ma la disponibilità a farsi ingranaggio: coordinare, compilare, progettare, amministrare. I compiti gestionali diventano titoli di merito. Chi insegna e studia troppo resta indietro. Chi organizza e verbalizza avanza.

Il risultato rischia di essere una mutazione antropologica del docente universitario. Non più intellettuale, ma funzionario; non più maestro, ma manager di se stesso. L'insegnamento che dovrebbe essere il cuore dell'istituzione scivola in fondo alla lista delle priorità. Le lezioni diventano un fastidio, la didattica un adempimento, mentre fioriscono i diktat pedagogici, i format, le competenze trasversali. Tutto, tranne la sostanza delle discipline.

Eppure, quando Testa parla di ciò che gli mancherà, non cita convegni né progetti europei. Cita le lezioni. Il dialogo con gli studenti. Quella fraternità d'interessi che nasce quando il sapere non è una prestazione, ma un'esperienza condivisa. Testa: "Ho sempre pensato che il parlare ad altri sia parte integrante della ricerca e un momento fondamentale per chiarire, e correggere, le proprie idee". È qui che si misura il fallimento dell'università attuale: nel fatto che le sue parti migliori sopravvivono nonostante il sistema, non grazie ad esso.

Allora, l'università fa ancora il suo dovere? La risposta, se deve essere onesta, è ambivalente. Lo fa a tratti, grazie a individui più che a strutture. Lo fa per inerzia, per residuo, per vocazione personale. Ma come sistema sembra aver smarrito la misura: troppo presa a valutarsi per valutare, a gestirsi per insegnare, a mostrarsi per pensare.

Le dimissioni anticipate di Enrico Testa non sono un atto eroico. Sono qualcosa di più inquietante: una scelta razionale.

Quando le persone serie smettono di credere che valga la pena restare, il problema, molto spesso, non è loro. È dell'istituzione che lasciano alle spalle.

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