Tutta colpa di quello sfondo azzurrino che faceva tanto convention della vituperata Forza Italia più o meno allargata. Senza quella scenografia traditrice, degna di Azzurra libertà (il vecchio motivetto ora soppiantato da Meno male che Silvio c’è) più che del partito che vorrebbe inaugurare la fase del post-berlusconismo, l’opera restauratrice di Gianfranco Fini sarebbe stata completa. Perché domenica a Mirabello il presidente della Camera è apparso un uomo degli Anni 80. Tutto in lui ricordava le ruggenti stagioni del riflusso.
Altro che post, lui è un pre-berlusconiano. Il suo mondo si è fermato trent’anni fa. Le tv libere stentavano. Il «grande fratello» viveva soltanto nell’immaginazione di George Orwell e non su milioni di teleschermi. I telefonini - e relative intercettazioni - erano di là da venire. Non esisteva internet e nemmeno Google su cui perfino Silvio Berlusconi non disdegna di cimentarsi. Le «lapidazioni islamiche», infelicemente evocate da Fini contro il Giornale mentre il mondo si mobilita per evitare che l’Iran musulmano tiri sassate non metaforiche a Sakineh Ashtiani, non giungevano alle orecchie dell’Occidente. E ci si poteva trasferire a Montecarlo senza troppe seccature, quelle che oggi invece infastidiscono tanti ricchi personaggi del jet-set internazionale e pure il cognato di Gianfranco medesimo.
Alto, magro, abbronzato, Fini si è presentato in gran forma come Big Jim al braccio della sua Barbie, la bionda Elisabetta Tulliani, a personificare le bambole sognate dalle ragazzine di trent’anni fa. Completo grigio chiaro con scarpe di cuoio, un «evergreen» dell’abbigliamento che nulla concede alla fantasia della moda più recente. Camicia bianca inamidata, con polsini grandi e gemelli d’argento a forma di bandiera tricolore sbalzata. Cravatta azzurrina accompagnata al colore del fondale simil-forzitalista e alla camicetta di raso di Elisabetta. È chiara l’immagine che Fini vuol dare di sé. Uno che guarda avanti ma ben piantato nel passato. Progressista ma anche conservatore. Tant’è vero che ha cominciato il discorso citando la memoria di Giorgio Almirante, il segretario del Movimento sociale che proprio a Mirabello e proprio alla fine degli Anni 80 lo indicò come erede politico.
Nemmeno i riferimenti culturali di domenica si affacciavano sugli Anni 90 e oltre. Uno scrittore citato, Ezra Pound, scomparso nel 1972. Un film menzionato, Il Dottor Stranamore, che risale a metà degli Anni 60 ed è ambientato nel clima politico più congeniale all’ex numero uno del Msi e di An, cioè la guerra fredda. L’evento è stato aperto da una canzone di Lucio Battisti, Uno in più, lanciata nel 1967. E nell’attesa dell’evento, l’impianto voci di Mirabello è stato testato con i Pink Floyd, colonna sonora della stagione dalla quale Fini non riesce a schiodarsi.
Oggi che non si sale sul palco senza essere dotati di auricolari e «gobbo» suggeritore, e che si predilige lo stile «talk show» con luci e poltrone ben assortite, il presidente della Camera continua a preferire il vecchio modello prima Repubblica. Un uomo solo al microfono, appunti scritti a penna su carta da fotocopia, telecamere fisse, lungo discorso pronunciato a braccio che merita applausi se non altro per lo sforzo fisico che comporta. È proprio il ritorno della politica ante Tangentopoli. Fini è ridiventato quello che era trent’anni fa. Anche nel linguaggio. Clamorosa la citazione della Standa, la catena di supermercati che per qualche anno era appartenuta alla Fininvest. Al leader di Futuro e libertà sbertucciare lo storico marchio della «casa degli italiani» serviva per sfregiare Berlusconi e «i politici che pensano di guadagnare punti con la tessera fedeltà». La Standa fu comprata da Fininvest alla fine dei fatidici Anni 80 e ceduta nel 1995 (successivamente smembrata tra la famiglia Coin e la multinazionale austriaca del marchio Billa) dopo una lunga serie di attentati.
Ma al di là della Standa, tutto il comizio è stato punteggiato da formule del politichese che sembravano dimenticate. I contorcimenti delle «tre gambe». Le alchimie del «terzo polo». Le minacce velate dei franchi tiratori («potrei ricordare che il nostro Mario Baldassarri è determinante nella Commissione bicamerale per il federalismo, ma non lo dico»). I riferimenti alla lotta di classe e al mercatismo, antinomie ormai ignorate anche da Bertinotti. Le «assise del mondo del lavoro», proposta che dovrebbe rivoluzionare le relazioni industriali. Il continuo gioco d'ostruzione.
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