Michele Anselmi
da Venezia
Capricci dautore, sennò che David Lynch sarebbe. Unico tra gli oltre settanta titoli della Mostra, il titolo di Inland Empire è scritto dappertutto, a partire dal programma, rigorosamente in maiuscolo. Vai a sapere perché. Non che sia lunica cosa che si vorrebbe sapere del film, ma con registi come lui, oggetti di un culto cinefilo inossidabile, cè poco fare. Lynch non si discute, si ama, anche se porta un film di tre ore, ostico e astruso, quasi un rompicapo, la cui trama, tanto per darvi unidea, così viene sintetizzata: «La storia di un mistero... il mistero di un mondo allinterno di altri mondi... che si svela intorno a una donna... una donna innamorata e in pericolo». Chi faticò a raccapezzarsi nelle intricate movenze lesbiche di Mullholland Drive, 2001, è rimasto senza parole ieri di fronte a questi 180 minuti più labirintici e inquietanti che mai. Volato al Lido per ritirare, ieri pomeriggio, lunico Leone doro alla carriera di questa edizione, il sessantenne Lynch si presenta così: «Voglio fare film che non possono essere visti in auto, su un aereo o su una nave. Bisogna comprare il biglietto per entrare in quel mondo, vivere quellesperienza». Esperienza sensoriale, verrebbe da dire, che nel caso di Inland Empire (il titolo allude ad una zona fuori Los Angeles) rimanda un po alle sue origini sperimentali.
Rumori, risatine e ronzii di fondo come un tappeto sonoro rotto dalle musiche di Penderecki o da canzonette pop, un senso costante di spiazzamento, numeri da decifrare e tette da sballo, la «storia» che si disperde in mille rivoli con una digressione a Lodz in Polonia, tra cacciaviti insanguinati e tradimenti coniugali, mentre si sta girando il remake di un film che fu mai completato per la morte di due attori. Inutile provare a raccontare Inland Empire, costruito sullagile figuretta di Laura Dern, ormai assurta a icona «lynchiana» e pure produttrice insieme al regista. «Amo andare a curiosare nel subconscio delle persone», ripete lui, uno che se ne intende: da 33 anni ha aderito al programma di meditazione trascendentale di Maharishi Mahesh Yogi.
Sommerso dagli applausi degli adepti, il regista sè materializzato ieri in tutto il suo splendore: camicia bianca chiusa sul collo, capelli fluenti ancora biondastri e non più pettinati alla Simpson, voce soave da chi sembra aver ritrovato la Serenità (benché il gossip lo dia appena separato dalla moglie), un atteggiamento da ispirato cine-guru. Intendiamoci, il suo film, al pari di Velluto blu e Strade perdute, è frequentato da strane presenze, incluso un terzetto di umani in vestaglia con teste da coniglio, ma nel parlarne Lynch sfodera una calma olimpica: si capisce, però, che il film, acquistato per lItalia dalla Bim, è stato girato in ordine sparso, partendo da unideuzza sviluppata al montaggio, assemblando suggestioni e ossessioni. Teorizza: «A pensarci bene, Inland Empire è un po la mia Dolce vita. Non chiedetemi di spiegare. Lasciatevi andare al flusso di coscienza. La comprensione del film passa solo attraverso unastrazione che viene dallintuito». In altre parole... «Se lintelletto e lemozione procedono insieme, integrandosi, tutto diventa più chiaro. Certo, la meditazione mi ha aiutato a incrementare le facoltà intuitive. È come entrare in un ascensore senza cavi e farsi risucchiare nel vuoto, è il respiro iniziale, è il regno dei cieli allinterno di me, una benedizione che stimola la creatività». Accidenti. Questo è il Lynch di oggi. Un cineasta eclettico, ormai fuori dal giro hollywoodiano, prediletto dai festival più che dal pubblico pagante, teorico di unattività artistica nella quale confluiscono, come nel suo caso, musica, disegno, pittura, architettura, fotografia, arredamento. Naturalmente anche il ricorso al digitale rientra in una scelta estetica che non ha a che fare solo con i costi ridotti: «Its just a dream, un sogno. La vecchia pellicola si rompe, scolora, è complicata da usare. Non tornerò mai indietro, così mi sento molto più libero di sperimentare». Ma non per la tv: «Lesperienza di Twin Peaks mè bastata.
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