Macché eutanasia, Oriana lottò per vivere e scrivere

Una come lei non poteva scegliere la "dolce morte". E mai pensò di bruciare l’ultimo libro. Fu così coerente che oggi non ci servono interpreti del suo pensiero

Macché eutanasia,  Oriana lottò per vivere e scrivere

Oriana mi escluse dai suoi ultimi mesi di vita. Bastava un nonnulla, e ti cancellava. Lo aveva fatto altre volte, e mi aveva sempre richiamato, ma allora non ebbe il tempo di ripensarci, se mai l’avesse voluto fare. Per cui l’ultimo ricordo che ho di lei è quello di una donna minuscola e imponente, dagli occhi chiari e dallo sguardo affettuoso, che mi abbraccia sulla porta della sua casa americana incorniciata dalla galaverna. Era febbraio, un gelido febbraio newyorkese. Poi, una breve telefonata il giorno del suo ultimo compleanno, il 29 giugno del 2006. Altri, dunque, hanno avuto il compito di accompagnarla nel calvario finale: il nipote Edoardo, a cui ha affidato l’eredità, ma soprattutto la memoria di sé, monsignor Fisichella, Riccardo Nencini, Daniela Di Pace, Aligi Cioni e un medico fiorentino a cui era affezionatissima. Loro, molto più di me, sanno cosa accadde nella stanza della clinica Santa Chiara da cui si scorgeva il cupolone del Duomo, ma di una cosa sono ragionevolmente certo: che Oriana non avrebbe mai accettato l’eutanasia, per non «legittimare» la morte. E non sarebbe certo felice delle polemiche di queste ore, dopo le affermazioni della sorella Paola, piccole tempeste di mezza estate che servono a riempire le pagine dei giornali ma non intaccano né la sua limpida testimonianza di vita né il velo di riservatezza con cui Oriana ha sempre circondato la sua esistenza e il suo rapporto con la morte. E con l’Alieno che ne è stato il tenace messaggero dentro il suo corpo. La Fallaci parlava della morte ogni giorno, covava dentro di sé un acutissimo rancore contro quella Nera Signora che lei considerava uno spreco, perché si-nasce-per-morire-e-non-possiamo-farci-niente. Una lotta impari, a cui però la Lettera a un bambino mai nato riuscì a dare un epilogo sorprendente. Questo: «Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore». Sì, la vita non muore perché chi se ne va lascia tracce indelebili, e Oriana dunque c’è ancora con i suoi scritti, con la travolgente passione, con la testimonianza appassionata di una vita trascorsa nelle trincee di guerra e, spesso, nella solitudine. Ogni suo libro, in fondo, è stato un dialogo serrato con la morte. Un uomo comincia e finisce con i funerali del protagonista. E in Se il sole muore il verbo morire si trova addirittura nel titolo. Però in ciascuno di essi c’è il tema della vita. Per questo la Fallaci amava dire che il tema dei suoi libri è «l’eterno scontro tra la Vita e la Morte». «Morire è una semplice battuta di arresto. Una pausa di riposo, un breve sonno per prepararsi a rinascere, a rivivere per morire di nuovo sì ma per rinascere ancora, rivivere ancora, vivere, vivere all’infinito», dice Angelo prima di saltare in aria con la terza nave, alla fine di Insciallah. Un favore alla morte, dunque, Oriana non lo avrebbe mai fatto. Aveva un tale attaccamento alla vita da volerne assaporare fino all’ultima stilla, anche quella più avvelenata dal cancro, la malattia che ha segnato i cromosomi della sua famiglia e con la quale ha combattuto una battaglia epica. «Ora è arrivato al cervello - mi disse una volta - e non sa, l’Alieno, quale strenua resistenza troverà». Spesso mi descriveva, con orgoglio, lo stupore dei medici di fronte a un quadro clinico sempre più drammatico e alla lucida determinazione con cui lei andava invece avanti, giorno dopo giorno, senza pause e senza rassegnazione, leggendo e scrivendo con una lente d’ingrandimento perché gli occhiali non bastavano più. Un solo errore ha commesso Oriana, enorme come l’evento che la indusse a interrompere la sua lotta all’Alieno: smettere di curare se stessa, dopo l’11 settembre, per dedicarsi anima e corpo a combattere quel cancro molto più grande che corrode l’Occidente alle prese con la minaccia islamica. Nel tentativo di salvare una civiltà sazia, imbelle e senza più anima, la Fallaci ha speso l’ultimo preziosissimo scorcio di vita per scongiurare l’eutanasia di un mondo. Una partigiana della vita come lei, mai avrebbe dunque accettato la dolce morte, un ossimoro, un controsenso. Lo dimostra la battaglia che la vide in prima linea sulla vicenda di Terry Schiavo, la donna a cui il marito decise di staccare la spina, e per questo si beccò l’appellativo di «Barbablù senza scrupoli». «Ne deduco - disse Oriana a Il Foglio - che nella nostra società parlare di diritti umani è davvero una impostura, una farisaica commedia. Ne deduco che da noi essere malati in modo inguaribile è un delitto per cui si rischia la pena capitale. Ne deduco che nel nostro tempo chi è malato in modo inguaribile viene considerato un cittadino inutile, un disturbo da cancellare, quindi un reprobo da punire. Ne deduco che per non essere gettati dalla rupe nella nostra società bisogna essere sani e belli e in grado di partecipare alle Olimpiadi o almeno giocare la fottuta partita di calcio. Beh, allora eliminiamoli tutti quei cittadini inutili, quei disturbi da cancellare, quei reprobi da punire». Per questo si dichiarò contraria anche al testamento biologico, per non mettere la vita nelle mani di un qualsiasi Barbablù. Ripeto: per quanto ho conosciuto Oriana, non posso credere che una donna così abbia chinato la testa di fronte alla morte: la parola eutanasia non faceva parte del suo vocabolario. E se avesse cambiato idea negli ultimi giorni, non avrebbe chiamato al suo capezzale monsignor Fisichella.
La Fallaci detestava i chiacchiericci, le frasi oblique, le mezze verità. Non amava convivere con l’incertezza, raramente cambiava idea. E sinceramente non so se, dopo aver interrotto la stesura del libro sulla sua famiglia - ne parlava sempre come della «mia creatura» - abbia pensato, qualche volta, di impedirne la pubblicazione postuma, visto che era rimasto incompiuto. Mi riesce difficile parlare, oggi che lei non c’è più, di quanto mi disse a New York, nell’ultimo colloquio: lei, infatti, non può più smentirmi. Ma di fronte alle polemiche ho il dovere di confermare la versione di Edoardo Perazzi: Oriana sapeva di dover morire presto, e di non poter più scrivere il capitolo del Novecento, in cui avrebbe raccontato la guerra ai nazifascisti, la Resistenza, l’eroismo di suo padre. Ma voleva ugualmente che Un cappello pieno di ciliege vedesse la luce.

Ed è giusto così, per ricordare che Oriana non è stata solo l’ultimo bardo d’Occidente, con la trilogia sull’Islam, ma un grande scrittore a tutto tondo, un’intellettuale di spessore mondiale e una narratrice insuperabile. E chiunque stia leggendo il suo ultimo capolavoro penserà, proprio come me, che non pubblicarlo sarebbe stato un delitto.

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