Macché futuristi, i finiani sono pantofolai

Si appropriano di un passato di cui non sono degni. La loro vera parola d'ordine è aspettare

A Fini e ai finiani si può perdonare tutto. La spocchia ingiustificata, l’incoerenza palese, l’opportunismo plateale, persino l’appropriazione indebita del termine «destra». E si può essere addirittura disposti a cercare di capire il tradimento badogliano di cui si sono macchiati. Si possono assolvere e comprendere per tante cose. Ma non questa. Non che s’approprino di un passato che non gli spetta. Si tengano l’appartamento di Montecarlo, ma giù le mani dalla sacra parola «Futurismo».

Passatisti, decadenti e pedanti, ecco cosa siete. Altro che Futuristi. Al massimo futuribili, se sopravvivrete all’estate.

Che Fini e i finiani non si permettano di inzaccherare la memoria dei Marinetti, dei Balla, dei Boccioni, dei Depero. Zitti, voi che esagerando potete chiamarvi Bocchino, o Della Vedova, o Lamorte. O Di Biagio, uno che l’altroieri ha provato a rinverdire le magnifiche risse futuriste in Galleria, ma che con la sua penosa zuffa finiana in Parlamento ha dato subito il tono alla nuova formazione. Più che dinamismo neo-futurista, squadrismo post-fascista.

«Ebbene sì, chiamateci futuristi. Perché è un appellativo che raccoglie un’eredità alta, richiamando con immediatezza alla mente un fervore d’idee, un movimento di azioni, un brulicare di pensieri che caratterizzarono anni intensi oltre misura», ha scritto sul periodico online della Fondazione Farefuturo il wagneriano Filippo Rossi, un nome così anonimo nella sua banalità che nel movimento di Marinetti&compagni al massimo lo avrebbero mandato in giro a volantinare il Manifesto dei musicisti futuristi di Francesco Balilla Pratella, altro che Ffwebmagazine. La guerra come igiene del mondo, all’epoca, andava benissimo. E oggi un bell’oscuramento telematico come antidoto alle futur-cazzate, no?

«Dei futuristi e di quella stagione febbrile di artisti, creativi e letterati - scrive Rossi - rivogliamo la forza sfrontata di andare verso il futuro senza paura, senza il terrore immobile dei reazionari di ogni epoca. La lucida follia di essere avanguardia». E questo proclamato dalla “testa pensante” di un gruppo parlamentare che un minuto dopo che si era formato era già più vecchio, per metodi e tatticismi, della Democrazia Cristiana, tanto che Andreotti quando ha saputo del rendez-vous tra Fini, Casini, Rutelli e Lombardo ha commentato: «Già dato. Quarant’anni fa». Sono così all’«avanguardia», questi «futuristi», che il loro domani è già preistoria.

«Di quella stagione - scrive Rossi - ci rimane la logica dell’azzardo. Del coraggio. Della sfida. Dell’avventura». E questo promulgato dalla penna digitale di un’associazione para-parlamentare che, come dirompente gesto d’esordio, cosa ha scelto? L’astensione. Cioè decidere di non decidere. Talmente rivoluzionari che il loro passo è l’immobilismo. Il loro programma il bizantinismo. La parola d’ordine è «Aspettiamo». Filippo Tommaso Marinetti i finiani li avrebbe presi a calci nel culo da qui al chiaro di luna.

«Ebbene sì - ripete Rossi - chiamateci futuristi. Ma di un futurismo pacifico, pacificato, liberato, liberale e democratico. Postmoderno. Riformista». E questo richiesto da un manipolo di post-fascisti che adesso vogliono farci credere alla favola di una destra moderna, laica, europea e sarkozysta e che fino a l’altroieri marciavano compatti dietro a un «duce» alto, allampanato e con gli occhiali a goccia inneggiando di volta in volta al corporativismo almirantiano, al rivoluzionarismo rautiano e al conservatorismo di Michelini. Un giorno minacciando l’ostruzionismo anti-democratico e antisistema, e il giorno appresso, di fronte all’inizio dell’ondata extracomunitaria, paventando lo spettro di un’Italia meticcia. I veri futuristi magnificavano - rigorosamente al maschile, altro che quote rosa - «un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, più bello della Vittoria di Samotracia». Almeno vi tirasse sotto tutti, alla prossima mozione di sfiducia.

Vogliono essere chiamati futuristi. Con una conoscenza della storia e della letteratura pari alla simpatia dell’onorevole Bocchino. Zero. I futur-finiani sono balzati agli onori delle cronache da una settimana e hanno già dimostrato di incarnare tutti i requisiti intellettuali che il Futurismo voleva radere al solo: la poesia morbosa e nostalgica, come le prediche televisive di Barbareschi; i toni dimessi e malinconici, come gli editoriali della Perina; i sentimenti mielosi e romantici, come gli interventi finto-buonisti di Granata; le «piccole cose di pessimo gusto», come le cravatte di Fini; gli affetti familiari e una vita tranquilla, come il ménage tra Gianfranco e la Tulliani. Crespuscolari.

«Non v’è più bellezza, se non nella lotta», ricorderebbe Martinetti a questa congrega di pantofolai che si aggirano per la Camera.


«Ammiriamo il dinamismo fluido del presente, in nome del sacro rispetto di un pantheon altissimo di valori laici» conclude il nuovo Manifesto del futurismo di Farefuturo. Che, i veri futuristi, liquiderebbero alla loro maniera. Parole in libertà.

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