«Macché osceno, il mio nudo è classico»

Negli anni ’70, quanto stavate insieme, tu e Patti Smith passavate un sacco di tempo da Max’s Kansas City, un night club e ristorante di New York.
«Appena uscito dagli studi d’arte, nel 1970, sono arrivato a Manhattan con Patti Smith. Abbiamo vissuto al Chelsea Hotel per un anno, un anno e mezzo. Avevamo la stanza più piccola di tutto l’albergo, ma era l’unica che ci potevamo permettere e dovevamo far finta che ci abitasse solo uno di noi perché per due era improponibile. Andavamo lì quasi tutte le sere. Avevamo un sacco di sciarpe e di vestiti da pochi soldi e uno dei giochi più divertenti era travestirsi. Ci mettevamo nella sala sul retro di Max’s e nessuno ci rivolgeva la parola. New York è una città molto chiusa; ci vuole un po’ prima di riuscire a farsi un varco con la gente. Alla fine cominciarono a venirci a parlare, così conoscemmo uno e poi un altro e così via, e finì che ci accettarono. A quei tempi Patti leggeva le sue poesie a St. Mark’s e io facevo collage, cominciavo a scattare foto».
Chi c’era?
«Tutti, ma per lo più musicisti, scrittori, modelle à la page, e fotografi: gente che doveva diventare famosa e che poi non lo diventò. Erano drag queens e lavoravano nei film di Warhol, ma non avevano abbastanza talento per fare altro».
Tu realizzavi collage e oggetti feticcio. Dove avevi studiato?
«Al Pratt Institute, dove realizzavo collage. E anche oggetti fotografici con materiale preso da riviste porno. A un certo punto ho preso la macchina e ho cominciato a scattare foto erotiche per avere la materia grezza giusta e perché fossero più mie, invece di usare le foto di altri. È stato per quello che ho cominciato con la fotografia. Non per ottenere una pura immagine fotografica, solo per avere più immagini con cui lavorare».
Il tuo lavoro è molto coerente, disciplinato, ordinato.
«Così, senza rendermene conto, sono diventato un fotografo. Non era quello che volevo fare quando ero all’università. Allora non la ritenevo un’arte abbastanza nobile. Ma poi ho capito che con la fotografia puoi fare ogni genere di cosa, proprio tutto; e anche che era il mezzo perfetto, o almeno così sembrava, per gli anni ’70 e ’80: un tempo molto veloce. Se ci avessi dovuto mettere settimane intere per fare una cosa, avrei perduto l’entusiasmo. Sarebbe diventata una fatica e sarebbe finita la passione. Con la fotografia azzeri tutto: metti un sacco di energia in tempi ridotti, brevi momenti e poi vai avanti verso la cosa successiva. E poi potevo viaggiare e continuare a essere produttivo. Sembrava proprio la cosa giusta».
I tuoi modelli sembrano sempre molto ben preparati, come per una messa in scena. I tuoi non sembrano mai scatti casuali, ma tu dici che la fotografia è veloce. Quanto dura una sessione fotografica?
«Qualche volta devo conoscere davvero bene le persone prima di riuscire a scattare foto, per cui ci vuole un sacco di tempo; ma per il ritratto in sé poi ci vogliono più o meno due ore».
E poi a finire il lavoro ci pensa qualcun altro. Tu non sviluppi da solo, vero?
«No, ma ho bisogno della forma mentis giusta per guardare i provini e capire quale sia “la” foto, nessuno può fare questo per me».
Quante ne devi scattare per ottenere quella giusta?
«In genere 5-6 rullini. Quando faccio foto commerciali mi danno un sacco di soldi e posso usare più pellicola, ma questo non significa che non mi preoccupi comunque di conoscere il modello. Magari ne faccio dieci quando lavoro su commissione perché immagino che i clienti ne vogliano di più. Il lavoro del fotografo consiste anche, in parte, nel rendersi conto di quando il suo soggetto è esaurito. Mi sembra che altri fotografi non siano sempre molto sensibili a questo, vanno avanti, strafanno. Continuano a scattare mentre io per la noia avrei già smesso da un pezzo. E poi per le foto bisogna tirar fuori un tot di energia e i fotografi spesso non sono molto sensibili alla gente. Io credo che le foto scattate nel momento in cui il modello si sente più a suo agio siano le migliori».
Non capisco perché se uno nasce cattolico ma non è più praticante si continua a dire che è un “cattolico smarrito”. In casa tua sono disseminati oggetti e immagini cristiane e tu stesso hai anche fatto delle croci. In quali altri modi questo entra nel tuo lavoro?
«Per esempio, l’essere cattolico si manifesta in un certo approccio, in una certa simmetria. Mi piace la forma della croce. Mi piacciono le sue proporzioni: dispongo le cose in modo cattolico. Ma a questo punto credo sia più che altro un fatto subconscio».
Tante delle tue foto sono frontali, come le Madonne del Trecento. Usi spesso la parola “perfezione” e c’è una sorta di perfezione nel tuo lavoro, di purezza. È spesso simmetrico e in quel senso si richiama al crocifisso.
«Il lavoro è molto diretto. Cerco di fare in modo che nella foto non ci sia niente di discutibile. Non voglio che appaia niente col taglio che non dovrebbe avere».
Penso che le tue foto abbiano più a che fare con la scultura che con la pittura.
«Se fossi nato un secolo o due fa, forse sarei stato scultore, ma la fotografia è un modo così immediato di vedere, di scolpire. Lisa Lyon mi ha fatto pensare a Michelangelo e alle sue donne muscolose. Le foto migliori hanno qualcosa di cui non mi ero reso conto prima».
Ci sono cose che ti arrivano addosso come una sorpresa?
«Sì, qualche volta guardo una foto e penso che tutto torna.

Quando faccio una buona foto lo so. Ho sempre fatto foto grandiose di Patti Smith».
È per via del magnetismo che c’è tra voi?
«Sì, per quello e anche per qualcos altro. È come quando ti droghi, sei in un mondo astratto ed è perfetto».

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