Madrid, il Primo Levi «antisemita» fa infuriare Israele

Ma nella pièce teatrale lo scrittore «riletto» da Ferdinando Carmo si limita ad assumere posizioni antisioniste

Capisco perfettamente la protesta dell’ambasciatore israeliano in Spagna, Victor Harel, contro la rappresentazione della Conversazione con Primo Levi, l’intervista di Ferdinando Carmo trasformata in pièce teatrale e messa in scena a Madrid nell’ambito della tradizionale Giornata della memoria. Dicendo «capisco» non voglio dire che la sua posizione sia condivisibile in toto, ma ce n’è quanto basta per riflettere.
I fatti sono semplici. C’è, a Madrid, questa pièce che riporta le parole di Primo Levi, la cui posizione antisionista non può lasciare dubbi. Harel ha torto quando identifica la posizione antisraeliana di Levi con una posizione antisemita (dare dell’antisemita a Primo Levi sarebbe come dire che Frank Sinatra non era un cantante). L’esistenza di una pluralità di posizioni sull’avventura dello Stato di Israele è (ci mancherebbe!) perfettamente legittima, tra ebrei e non ebrei. Tuttavia, è sempre necessario misurare le proprie parole con il contesto (fatto di spazio e di tempo) nel quale vengono dette.
Qui sta il punto. Le parole dette da Primo Levi nel 1986 si capiscono nel contesto del 1986, con la situazione internazionale di allora e con la situazione politica nazionale di allora. Il muro di Berlino era ancora in piedi, nel 1986, quando si pensava che i cristiani maroniti fossero fascisti e altre fesserie del genere. Ma la pièce di Madrid trasforma quelle parole in altre parole. Le trasforma in parole dette nel 2006, quando Israele si trova senza Ariel Sharon mentre Hamas - braccio palestinese del fondamentalismo islamico, che inneggia alla cancellazione di Israele - trionfa nelle elezioni palestinesi. Sono, dunque, parole che solo tangenzialmente hanno a che vedere con Primo Levi, e che esprimono una precisa posizione su una situazione presente.
Io credo che Harel abbia parlato di «antisemitismo» obliquamente, ma non a caso. Egli dimostra di trattare l’evento come un evento spagnolo, in cui un’occasione ufficiale quale la Giornata della memoria spinge a pronunciare parole ufficiali. E le parole ufficiali, qui, in un momento di estrema difficoltà per lo Stato di Israele, sono contro Israele. Difficile non pensare che Harel abbia visto, in questo piccolo episodio, un tassello di quello sconcertante mosaico che è la Spagna di Zapatero, che sta dando al mondo - e mi dispiace molto per gli spagnoli, che non sono affatto così - l’immagine di un Paese che ha perso il proprio tradizionale coraggio, e bacia la mano di chi l’ha offeso.
Non solo. Le parole di Levi (che si sono trasformate però in altre parole, affatto diverse) sono l’eco di un antisemitismo diffuso, capillare, un po’ complessato ma ben vivo anche e soprattutto in ambienti progressisti, ossia in quegli stessi ambienti dove si combattono tutte le battaglie possibili contro il razzismo.

Le parole che diciamo, in un articolo come in un romanzo come in una pièce di teatro, sono sempre parole dette da noi (anche se usiamo le formule di qualcun altro). E non sono mai parole innocenti. Alle accuse di Harel è bene che governo spagnolo e responsabili dell’operazione culturale non rispondano con il solito, odioso «ma noi intendevamo soltanto... ».

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