LA MAESTÀ

LA MAESTÀ

e Roma e Firenze, con Pietro Cavallini e con Giotto, indicano due strade per uscire dalla tradizione bizantina e andare verso l’uomo ritrovato, Duccio di Buoninsegna, non meno grande dei due colleghi, non vuole chiudere con la imperitura tradizione bizantina, ma celebrarla fino all’esaltazione di modelli, di iconografie, di riti per i quali non è previsto rinnovamento, trattando una materia che si vuole eterna e per la quale al pittore si chiede una sempre maggiore perfezione. Duccio di Buoninsegna, senese, si prefigge di essere il primo e il più grande, non l’ultimo, dei pittori bizantini, quello che perfeziona con una straordinaria vivezza pittorica gli schemi infinite volte collaudati.
La sua Maestà, dipinta su due lati, non è solo l’esaltazione del momento più alto e solenne della natura divina della maternità, ma una vera e propria enciclopedia della tradizione iconografica cristiana. Duccio non ha bisogno di inventare immagini nuove, di trasformare l’iconografia attraverso una vera, calda, umanità. Egli si limita a osservare con più meticolosa attenzione, e con compiacimento di un miniatore, i particolari mille volte ripetuti dai maestri bizantini, e farli scintillare attraverso l’interpretazione personale: una partecipazione così intensa da attribuire all’esperienza mistica, proprio attraverso l’orgoglio della ripetizione, un personalissimo accento. Non è l’uomo e non sono emozioni e sentimenti umani che Duccio cerca, ma l’esaltazione del pensiero divino nella forma perfetta, anzi, nel perfezionamento della forma cui egli aspira, per maggior gloria di Dio. La sua Maestà non è soltanto una regina, come sarà in Giotto, ma la più fedele riproduzione della natura sacra della madre di Dio, icona suprema. Così Duccio è certo di ritrovarla in Paradiso, non nella umanizzazione che la farà essere semplicemente madre in Giotto o in Ambrogio Lorenzetti. Ciò che lo spirito moderno chiede dovette sembrare a Duccio una diminuzione di spiritualità, una riduzione di sacralità. La sua pittura, appunto, consacra, non illustra o umanizza. La sua pittura divinizza la maternità. E anche il racconto, la storia della vita di Cristo, l’entrata in Gerusalemme come la Crocifissione, non sono narrazioni, non evocano pathos, ma sono cerimonie che ricordano vicende umane trasfigurate nella luce di Dio. Tutto ciò che è umano, la gioia come il dolore, che saranno la sostanza della modernità, non gli interessano, perché ciò che è accaduto al Signore non può essere misurato con i sentimenti e le emozioni degli uomini, che pure possono reinterpretare ciò che è toccato a Gesù come una storia umana, la storia di un uomo. Ma Duccio sa che quell’uomo è Dio e che la sua esperienza è unica ed esemplare. Questa è la grande lezione della tradizione bizantina che egli può fare risplendere fino a trasfigurarla, ma senza cambiarne le ragioni di fondo che rappresentano, prima ancora che una tradizione pittorica, una estetica. In questo Duccio, oltre che un pittore, è anche un filosofo e ciò lo rende così diverso e così astratto rispetto a Giotto e a Cavallini. Due mondi, due visioni, incomunicanti, ma una sola idea.

Per l’uno: trovare l’uomo attraverso Dio; per l’altro: trovare Dio attraverso l’uomo.

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