Cultura e Spettacoli

Maestri Liberali battete un colpo

Si parla solo di crisi, aiuti statali, fine del capitalismo. Ma Antiseri, Martino, Pera e tutti gli altri scelgono il silenzio. Dopo il crollo del muro tutti saltarono sul carro del mercato, dell'economia senza lacci e lacciuoli. Ora voltano rapidamente gabbana

Maestri Liberali battete un colpo

Cari maestri, dove vi siete nascosti? Questo Paese ha nostalgia del Novecento e c’è una gran voglia di «impiccare» i liberali. È la vendetta di tutti gli orfani delle ideologie. Un amico qualche giorno fa raccontava lo strano destino di Von Hayek. È stato indicato come monatto della crisi da vivo e da morto. Nel 1929 fu Rostow a dire: tutta colpa di Hayek e di Mises. Quest’anno Samuelson ha puntato l’indice su Friedman e, tanto per non sbagliare, e ancora su di lui, il viennese maledetto. Quando le cose vanno male certa gente sa sempre dove bussare. Ma non è solo colpa loro. Un po’ i liberali se la cercano. Quando c’è da fare muro, da sostenere la forza di un’idea, loro si rifugiano in ordine sparso, ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi, come direbbe Vasco Rossi. Allora, dite, in quale convento siete finiti? Antiseri è quasi un padre, eppure di questi tempi è così disilluso e avvilito che fatica a parlare. Ricossa vive di arte, musica, bellezza e solitudine. Pera dialoga solo con Dio. Martino sogna di fare il suo mestiere, ma il dicastero dell’economia era out con il bel tempo, figurati ora che c’è crisi. Quagliariello è un po’ più vecchio e indossa la toga dei senatori. Panebianco fa prediche inutili sul Corsera e si consola leggendo ancora Einaudi. Ideazione, luogo d’incontro degli ultimi liberali, vive solo on line. Tutti quanti sanno che la cultura liberale di massa è una favola a cui credono solo i piccoli imprenditori. Loro, almeno, sono rimasti sul fronte a combattere. Non c’è un giornale, una televisione, una rivista, un partito che sventoli la bandiera dell’orgoglio liberale. È questa la realtà, a destra come a sinistra. C’è qualche fondazione, come l’istituto Bruno Leoni e un paio di case editrici. Ma è una minoranza di simpatici incoscienti. La rivoluzione liberale è finita. Anzi, non è mai davvero iniziata.

Era il 1989 e quella data ora sembra quasi inutile. Non è colpa della storia, quella non si è fermata. È il silenzio di certe idee che preoccupa. Non serve girarci intorno. Quasi vent’anni dopo, come in un brutto romanzo di Dumas, possiamo dire che i liberali sono rimasti ancora una volta soli, quattro gatti e neppure una cabina telefonica, anche quelle sono scomparse. Tutti parlano della crisi, di questa sorta di nuovo ’29 che ci sta addosso, sulla pelle, come una sciagura, come una profezia, come qualcosa di reale che ti sbriciola le tasche. Dicono che la colpa è del capitalismo. Dicono che il mercato è senza cuore e senza morale. Meglio morire democristiani o comunisti. Meglio lo Stato, che scava buche e poi le riempie, che spende e spande. Dicono tutto questo e puzzano di nostalgia.

Voi, invece, zitti. Alla fine degli anni ’80 ancora insegnavate all’università. Eravate pochi. Quando in Italia si regalavano pensioni e Berlinguer alzava il muro della questione morale, voi raccontavate a un po’ di allievi cos’era la libertà. Vi ricordate? Von Mises e Von Hayek, Popper e Tocqueville, Einaudi e Rosmini, e poi perfino Rothbard, lì dove lo Stato diventa niente, un nemico da abbattere. Sì, eravate quasi anarchici. Il fascino del liberalismo è nella sua etica. Il liberalismo crede nell’uomo, nella voglia di rischiare, di elevarsi, di fare sempre un passo in più oltre la miseria dell’anima, oltre la mediocrità. Il liberalismo crede nella libertà, quella dell’individuo. Non crede a chi promette facile paradisi in terra. Non crede a chi parla di masse, classi, fedi, razze, stati, nazioni. Queste cose grandi sono un Leviatano che ti schiaccia, potenze metafisiche che strappano all’individuo i suoi diritti naturali. Sono il grande inganno del Novecento. Ecco, il liberalismo era una via di fuga contro le facili utopie, quelle a cui si aggrappa la gente quando ha paura. Era un modo per dire all’uomo, credi in te stesso. Scegli e giocati la vita. E soprattutto difendi la tua libertà, e quella di tutti i singoli individui, contro Dio e la ragione.

C’è stato un momento in cui la coccarda liberale era la parola d’ordine per il futuro. Il popolo degli ex si era riciclato. Tutti liberali, tutti a parlare di mercato e libertà. Tutti in fuga dal Novecento. Liberali in camicia nera, liberali in cachemire, liberali atei e devoti, liberali con il cilicio, liberali con la foto di Berlinguer sulla scrivania, liberali con la t-shirt del Che, liberali con l’edizione consumata del libretto rosso di Mao, liberali con il garofano, liberali con una lista di clientele grande come una provincia, liberali alle partecipazioni statali, liberali con lo scudo crociato, la falce e martello, la margherita, il sol dell’avvenire, il saluto romano, l’edera, il compasso, i santini da baciare e da bruciare, la maglietta della Ddr del 1974, i rubli sovietici in busta paga, le scarpe nere della Cia. Alcuni, liberali con tutte queste cose insieme. Quest’orgia è durata una decina d’anni.

Ecco, il liberalismo è stata una moda di stagione. Gli orfani del Novecento hanno schiumato rabbia sorda e muta. Se c’è una cosa che post-fascisti, post-comunisti e post-democristiani odiano è il liberalismo. Un odio assoluto e totalitario. È questa la verità, cari maestri. Tutti questi odiano il liberalismo perché disprezzano l’uomo. Rileggetevi il monologo del Santo Inquisitore dei Fratelli Karamazov, quando dice: gli uomini non vogliono la libertà, ma il pane. La libertà, rimprovera il vecchio al Cristo muto, fa paura. Lui, l’inquisitore, è tornato.

Voi fatevi sentire.

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