Com’era prevedibile, monsignor Alessandro Maggiolini è stato purtroppo ricordato ieri, specie nei titoli dei giornali, soprattutto come il «vescovo leghista», o «nordista» che dir si voglia, per via di sue presunte (in realtà del tutto inesistenti) simpatie per il Carroccio. Sono le semplificazioni del cosiddetto media-system, e noi giornalisti non possiamo che fare mea culpa.
Maggiolini è stato invece un uomo di Chiesa importante per motivi che non hanno nulla a che fare con la politica. Teologo fra i più dotti al mondo, fu l’unico italiano inserito da Giovanni Paolo II nella redazione incaricata di compilare il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, uscito all’inizio degli anni Novanta. La sua abitudine a parlar chiaro, e a non strizzare l’occhio alle mode per cercare il facile applauso del giornale progressista, gli era poi costata più di un’inimicizia nelle cosiddette alte sfere del clero, così che era finito a fare il vescovo prima a Carpi e poi a Como, bei posti ma certamente non tra le sedi più importanti dell’episcopato italiano.
Tuttavia, anche la cultura non è il metro di giudizio adatto per Maggiolini (così come si potrebbe, anzi si dovrebbe, dire di ogni cristiano: la santità non si valuta a tomi e traduzioni). Maggiolini è stato soprattutto un «pastore», come si dice in gergo cattolico; traduco: è stato un prete che incontrava la sua gente uno per volta, guardandoli in faccia, ascoltando, confortando, consigliando. Non c’è modo migliore per trasmettere la fede, e così Maggiolini faceva. Debbo a questo punto raccontare un episodio sul quale credo non esista alcun vincolo di segretezza. Ho frequentato assiduamente Maggiolini nei quasi quattro anni in cui ho diretto il quotidiano di Como, La Provincia. Ogni anno, alla vigilia di Natale, andavo a trovarlo insieme con l’amministratore delegato del gruppo Provincia-Eco di Bergamo, Massimo Cincera. Un incontro di routine, che divenne però eccezionale un anno (il 2004 o il 2005, non ricordo bene) in cui Maggiolini ci raccontò che, di lì a pochi giorni, sarebbe tornato sotto i ferri per via di quel tumore che l’aveva aggredito da tempo. Lo avevano già operato un anno prima; o meglio, avevano tentato di operarlo: ma per una specie di choc anafilattico dovuto all’anestesia, Maggiolini era entrato in coma, e solo per un’inezia s’era salvato e poi ripreso. La seconda operazione, che si sarebbe tenuta a giorni, era tuttavia pericolosa quanto la prima: «Le probabilità di un secondo choc anafilattico», ci spiegò Maggiolini, «sono altissime. E siccome il mio tumore è molto esteso, i medici mi hanno detto che il rischio di non risvegliarmi più è molto elevato». Sapevamo che non bluffava: la sua vita era appesa a un filo. Ma per oltre un’ora ci parlò di sé, e della sua morte, con una serenità che ci lasciò senza fiato. Giustamente ieri molti hanno scritto che Maggiolini aveva paura della morte. È vero. Ma, come il nostro Andrea Tornielli ha precisato, era il giudizio che temeva: non l’eventualità di sprofondare nel nulla. La sua fede nella vita eterna non era neanche una fede: era una certezza.
Cincera ed io uscimmo da quell’incontro sconvolti. Il discorrere della morte ci aveva ricordato soprattutto la nostra morte. Magari non imminente come quella di Maggiolini, ma non per questo meno sicura. A differenza del vecchio vescovo, però, né io né il mio editore sembravamo attrezzati quanto lui a farvi fronte. Fu allora che ci rendemmo conto di una cosa molto semplice: e cioè che migliaia di pagine di dotta teologia, comprese quelle dello stesso Maggiolini, non avranno mai la stessa efficacia di una testimonianza quale quella cui avevamo appena assistito. Mi tornarono in mente le parole, lette chissà dove, di Evagrio Pontico, un asceta cristiano del IV secolo: «A una teoria si può sempre rispondere con un’altra teoria. Ma una vita, chi può confutare una vita?». Ecco, è con la vita che Alessandro Maggiolini ha lasciato un segno. L’ho sentito qualche giorno fa. Era già più che sofferente. Mi aveva telefonato per sentire come stavo, e per assicurarmi la sua preghiera per la mia famiglia. «Ma che cosa fai tutto il giorno adesso che a Como c’è un altro vescovo?», gli chiesi. «Finalmente ho tempo per stare il più possibile nel posto in cui preferisco stare: in confessionale», mi rispose. Era vero.
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