Magistratura

L'ennesimo flop del pool di Milano tra Berlino e Mosca

Cosa importasse alla giustizia italiana, e in particolare alla Procura di Milano, di presunte tangenti pagate da una azienda tedesca per la metropolitana di Mosca non era chiarissimo

L'ennesimo flop del pool di Milano tra Berlino e Mosca

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Cosa importasse alla giustizia italiana, e in particolare alla Procura di Milano, di presunte tangenti pagate da una azienda tedesca per la metropolitana di Mosca non era chiarissimo. Su quella ipotesi però i pm milanesi hanno scavato, hanno messo sotto inchiesta manager italiani, finlandesi, tedeschi, russi, e imbastito un processo. Ieri arriva la sentenza: tutti assolti, il fatto non sussiste. E l'indagine finisce così anch'essa nel curriculum non troppo brillante del pool «Corruzione internazionale» della Procura, creato su misura del suo capo, Fabio De Pasquale (nella foto): e soppresso recentemente dal nuovo procuratore Marcello Viola.

Che dovesse andare a finire così ne erano fin dall'inizio convinti gli avvocati degli imputati. A entrare nel mirino del pool era stata nel 2015 la Microelettrica, filiale italiana del colosso tedesco Knorr-Bremse, specializzato in sistemi di frenatura per la viabilità ferroviaria. A manager e intermediari veniva mossa l'accusa di corruzione internazionale per avere versato - secondo il pm Adriano Scudieri - una tangente «tra il 13 e il 15 per cento», per un totale di quasi 1,7 milioni di euro, ai vertici della Jsc Metrovagonmash, azienda di Stato russa oligopolista nella fornitura di materiale rotabile e «titolare degli appalti pubblici per la realizzazione della metropolitana di Mosca». Nell'udienza dell'11 novembre la Procura aveva chiesto condanne fino cinque anni, ieri il tribunale assolve tutti: «il fatto non sussiste».

La vicenda Microelettrica andrebbe insegnata (se il Consiglio superiore della magistratura ne nominasse finalmente i responsabili) nella scuola di formazione per future toghe, perché è paradigmatica di un approccio alla giustizia in cui l'inquirente di turno si sente investito di una missione che va al di là delle sue competenze territoriali. Una specie di missione salvifica in cui la magistratura italiana, che si considera (secondo molti suoi esponenti di punta) la migliore del mondo esporta la giustizia: più esattamente, la sua visione di giustizia. Dove il diritto è avvolto dalle tenebre, i pm italiani - senza che nessuno glielo abbia chiesto - portano il loro faro, con buona pace degli usi locali.

Che ci si debba preoccupare anche di reati commessi all'estero è fuori discussione. Accade quando la vittima è un italiano, come nel drammatico caso di Giulio Regeni; accade quando il presunto colpevole è un italiano, come per chi va all'estero a approfittare dei bambini-schiavi, e come accadrà - se la legge entrerà in vigore - per chi affitta a pagamento uteri oltre confine. Ma accade anche quando gli agganci con l'Italia sono pochi o nulli. Anni fa un pm voleva arrestare Yasser Arafat per terrorismo, e quando il leader palestinese venne ai funerali di Pertini pretendeva che lo ammanettassero lì per lì.

Di questa vocazione ad esportare la giustizia il pool specializzato milanese è stato in questi anni uno dei protagonisti. Nelle inchieste, tutte finite in nulla, sugli appalti Eni, erano almeno italiani i manager e l'azienda indagati. Nel caso di Microelettrica, l'unico ruolo attribuito alla filiale italiana era di avere emesso delle fatture. I soldi della tangente non partivano dall'Italia, non passavano dall'Italia, non arrivavano in Italia.

Ma ce ne siamo occupati per nove anni.

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