È una storia, l’ennesima, che rischia di finire all’italiana. L’assassino, anzi il mostro, ha già un piede fuori dalla cella e ancora una volta l’opinione pubblica è frastornata. Avverte la sproporzione fra il crimine commesso, lo scempio di una bella ragazza nel fiore degli anni, e la fragilità di una pena inadeguata. Corta come le bugie.
Sì, perché gli italiani avevano masticato un’altra verità: in primo grado davanti al gup Guido Salvini, Ruggero Jucker era stato condannato per omicidio aggravato a 30 anni di carcere. La notte del 20 luglio 2002 Jucker, imprenditore della ristorazione, un cognome pesante a Milano, aveva afferrato un lungo coltello da sushi e aveva colpito 26 volte la fidanzata Alenya, colpevole di dormire al suo fianco. Una mattanza che aveva sconvolto persino i poliziotti accorsi nella centralissima via Corridoni. Jucker dunque aveva evitato di un soffio l’ergastolo, ma la pena sembrava, come si dice in questi casi, certa ed esemplare. Errore.
La giustizia italiana ha tre gradi di giudizio e poi ci sono le leggi, le loro interpretazioni, le aggravanti e le attenuanti, il codice e l’indulto, le norme della Gozzini. La pena diventa una specie di patente a punti, si fanno sottrazioni e addizioni, si risale in classifica e alla fine, bonus dopo bonus, le grida manzoniane restano appunto proclami urlati nel nulla. In conclusione, il fardello sulle spalle di chi ha ucciso diventa leggero leggero. Anzi, la giustizia può ridare all’assassino pure le chiavi di casa, della casa dove ha sterminato l’intera famiglia. È successo, non è una fiction: Ferdinando Carretta, dopo un sobrio passaggio all’ospedale psichiatrico giudiziario, quello che una volta si chiamava manicomio, ha ereditato le stanze in cui a Parma ammazzò madre, padre e fratello.
I corpi non sono mai stati ritrovati, ma lui ha recuperato la geografia domestica: il salotto e la cucina. Oltre ala libertà. Pacchetto completo. Low cost che più di così non si può.
Per Jucker il countdown si è messo in moto. I trent’anni in appello si sono quasi dimezzati, scendendo fino a quota sedici. Come? Il crimine ha perso la patente di aggravato perché la crudeltà è stata bilanciata e neutralizzata dal parziale vizio di mente e dal risarcimento versato alla famiglia. Un milione e trecentomila euro. Perfetto. Anzi no: il problema è che in Italia i bonus, gli sconti, le facilitazioni e gli afflati redentivi si sommano tutti insieme, in una sorta di bulimia perdonistica, in cui ciascuno, dal giudice al legislatore, fa la sua parte.
E il risultato è quello prima indicato: la pena non è più certa. È incerta, anzi virtuale. O poco più.
Soprattutto, è solo la pallida controfigura di quella spacciata all’opinione pubblica. La discesa, infatti, non è finita: Jucker passa da sedici a tredici anni, grazie all’indulto votato dal parlamento per i reati commessi sino al 2 maggio 2006. E poi ancora c’è la liberazione anticipata. Sono altre due anni, per l’esattezza 720 giorni, in meno. La Gozzini, di per sè, è sacrosanta, è stata pensata coraggiosamente per spingere il condannato sulla retta via. Il punto è che si cumula con tutto il resto. E la giustizia viene svenduta, come un cappotto ai saldi di fine stagione. Oggi Jucker esce in permesso. Fra due anni scarsi sarà fuori. Fine pena.
Anche se fra la vita in carcere e quella da uomo libero ci sarà la stanza di compensazione della misura di sicurezza per altri tre anni.
Si resta sgomenti perché tutti queste operazioni di aritmetica giudiziaria segano le sbarre a nemmeno nove anni dalla tragedia. Il tempo del dolore, il tempo del silenzio e il tempo dell’espiazione sono compressi dentro un’equazione facile facile.
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