Furono 164 - 120 volontari - i giornalisti italiani che accompagnarono le truppe alla conquista dellEtiopia, fra il 1935 e il 1936. Inquadrati nei reparti militari, fra loro cerano alcune delle più belle firme dei tempi, fra cui Mario Appelius, Vittorio Beonio Brocchieri, Niccolò Giani, Paolo Monelli e il giovane Indro Montanelli. Molti pubblicarono subito un libro sulla loro esperienza africana, in genere con successo, grazie al clima di euforia generale per limpero riconquistato. Fra i grandi assenti cera Curzio Malaparte.
Il polemicissimo e avventuroso scrittore toscano si era inguaiato con il regime nel 1933, accusando Italo Balbo di complottare contro il duce. Mussolini non aveva avuto dubbi nel proteggere il presunto complottatore - allepoca ministro dellAeronautica e reduce dalle clamorose trasvolate dellAtlantico - e Malaparte fu condannato a cinque anni di confino a Lipari, il 13 novembre 1933. Era abbastanza per troncare la carriera di chiunque, ma non quella di Malaparte, che alla sua attività di scrittore e alla sua libertà teneva più di tutto, pronto a qualsiasi compromesso per non perdere luna e laltra. Risultate inutili le suppliche al duce, cercò e ottenne la protezione di Galeazzo Ciano, da poco nominato capo dellUfficio stampa della Presidenza del Consiglio e già soprannominato negli ambienti del regime «il generissimo» per il suo matrimonio con Edda Mussolini.
Dopo otto mesi Ciano riuscì a farlo trasferire prima a Ischia, poi a Forte dei Marmi, finché nel giugno del 1935 gli fece avere un proscioglimento della pena. Malaparte, però, per un certo periodo non poté firmare con il proprio nome, né tanto meno seguire le truppe in Etiopia: proprio lui che aveva ottenuto il primo grande successo, giovanissimo, con il libro sulla Prima guerra mondiale Viva Caporetto!, e che avrà la consacrazione mondiale con Kaputt, sulla Seconda.
Dopo il confino si era rifatto, in denaro e immagine fascista, con la rivista letteraria Prospettive, di cui era editore e direttore. Un costoso numero celebrativo sullintervento italiano nella guerra civile spagnola venne acquistato in decine di migliaia di copie dal ministero degli Esteri, dove nel frattempo era approdato Ciano. Ma lEtiopia non poteva mancare alla sua storia di uomo e di scrittore: oltretutto, per Malaparte, un viaggio nellimpero sarebbe stato il suggello definitivo e pubblico della sua riconciliazione con il regime. Convinse dunque il direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli, che a sua volta dovette penare per convincere Mussolini a dare il permesso: «Quello lì», gli disse il duce, «è capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle e di voler conquistare lItalia».
Malaparte poté dunque partire il 19 gennaio 1939, dopo avere ottenuto un lucroso contratto con il Corriere: 25.000 lire per quindici articoli: tanto, se si pensa che il quotidiano pagava dalle 500 alle 1000 lire al pezzo ai suoi collaboratori più prestigiosi. In più si era anche assicurato un contratto con la Mondadori per un libro intitolato L'Africa non è nera: «Non sarà il libro di un giornalista», assicurò alleditore, «(i giornalisti non sanno scrivere e il pubblico non li legge più volentieri) ma di uno scrittore, sarà il primo libro sullEtiopia di uno scrittore». In realtà il volume non uscì mai - anche perché nel frattempo era scoppiata ben altra guerra, quella mondiale - e lunico libro di un grande scrittore sullEtiopia resta il Viaggio in Abissinia e nellHarar, raccolta postuma degli scritti africani di Arthur Rimbaud, oggi negli Oscar Mondadori.
A raccogliere in volume gli articoli di Malaparte (alla fine furono solo quattordici), ha provveduto - quasi settantanni dopo - Enzo R. Laforgia, che lha chiamato Viaggio in Etiopia e altri scritti africani (Vallecchi, pagg. 240, euro 9). Il volume è ben curato, ottime sia lintroduzione sia lappendice documentaria, ma è deludente, e non per colpa del curatore. Malaparte avrebbe voluto «illustrare», sono parole sue, «la creazione di un impero bianco in un paese nero»: ma lEtiopia era ben lontana dal diventare bianca, e la colonizzazione italiana procedeva faticosamente, ostacolata non poco dalla guerriglia di coloro che la propaganda fascista chiamava «banditi».
Mentre Mussolini non esitava a dichiarare che «fatto lImpero, bisogna fare gli imperialisti», limperialismo di Malaparte si manifestò alla perfezione in una celebre foto nella quale si fece riprendere mentre si faceva la barba, elegantissimo, accudito da due ascari. Nei tre mesi che trascorse in Etiopia, percorse circa 6000 chilometri, in parte a dorso di mulo, partecipando anche alle operazioni militari contro il capo più importante della resistenza etiopica, Abebè Aregai, e ottenendo per questo una Croce di Ferro: in proposito viene in mente una beffarda filastrocca composta da Giuseppe Bottai, che alla guerra dEtiopia aveva partecipato davvero: «Quando la pugna divenne pugnetta/ tutti i gerarchi accorsero in fretta/ ed al più lieve stormir di vento/ chiesero e ottennero medaglie dargento».
La guerra si addiceva alla fantasia e alla penna di Malaparte: «Non ho lipocrisia di dire: non amo la guerra. Io lamo, come ogni uomo bennato, sano, coraggioso, forte, ama la guerra, come ogni uomo che non è contento degli uomini, né dei loro misfatti», scriverà nel Diario di uno straniero a Parigi. Ma la repressione fascista della resistenza etiope non era una guerra che Malaparte potesse raccontare con il senso di orrore e repulsione che costituiscono la forza di Kaputt e di La pelle. Così, scrive Laforgia, i suoi pezzi sono «continuamente oscillanti tra atteggiamenti strapaesani e impennate liriche, rappresentazioni rassicuranti e descrizioni inquietanti, cronachette provinciali e visioni oniriche». Non il Malaparte migliore, dunque, ma un Malaparte per appassionati: di lui e dellAfrica.
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