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LA MALEDIZIONE DI UN CAMPIONE

L’ultimo gong è il telefono che squilla. Risponde il destino. Mike Tyson ha appena preso un cazzotto duro, il peggiore. Maledetta questa vita: s’è attorcigliata in una sorte vigliacca che se l’è presa con la persona che aveva rialzato Mike. Sua figlia. Exodus ha quattro anni e rischia di morire per un nodo scorsoio che l’ha strangolata in un gioco da bambini in casa. Perché? Perché questo? Mike non trova risposte neanche nel Corano che legge ogni giorno da nuovo fedele musulmano. Non c’è spiegazione alla maledizione che l’ha preso ancora. Ecco l’ultima volta che ha parlato: «Sono quattro anni che sono fuori dalle droghe, dall’alcol, dallo schifo. Mi occupo solo dei miei sei figli, li voglio tutti all’università e spero presto di diventare nonno». Quattro anni, l’età di Exodus. Lei è nata e Mike ha trovato la forza di cambiare. Allora di nuovo: perché? Tyson si riavvolge in un filmato che ha già girato senza sapere di essere ripreso: la vita che rotola giù, fino all’inferno, fino alla fine.
Non c’è più posto per lui in questo mondo. È come se abbia avuto una sola opportunità: persa quella non c’è speranza. Uno che manda gli altri al tappeto non ce la fa quando a terra finisce lui. La fine l’ha rincorso ogni volta per prenderselo: sei anni fa, il fallimento economico. Una macchina da soldi diventata un inceneritore di dollari. Trecento milioni di rosso, portato alla rovina dall’amicizia folle con Don King, l’uomo che ha trasformato Mike in una star, l’uomo che ha contribuito alla sua rovina: l’ha trascinato sul ring dopo il carcere, trovando avversari pronti a farsi sbranare dietro lauto pagamento; l’ha ricondotto nel circo drogato del pugilato americano, tra miliardi e botte, risse e donne; l’ha assecondato nelle sue follie, nella ricerca del sesso d’una notte con ragazze fidate, pagate e traditrici. Un gancio al portafoglio, un diretto all’anima: Mike vacilla, barcolla, rischia il ko. Mike torna quello del ghetto, sempre dentro al riformatorio e sempre fuori dall’esistenza: a 13 anni arrestato già 38 volte. Tyson è sempre quel bambino criminale e terrorizzato, capace di prendere a pugni il mondo solo per sperare di averne uno.
Non c’è una sola traccia d’acciaio. Iron Mike è il personaggio che ha lasciato il posto alla persona. Da dieci a uno, qualcuno ha già pronto il conto alla rovescia. Rialzati, campione. Ha tirato su la testa, ha puntato il pugno sul tappeto, ha forzato gli addominali. Ogni volta che ha alzato la testa ha sentito il piede di qualcuno che lo spingeva di nuovo giù. Dieci anni fa c’era già stato tutto: l’ascesa e il declino, l’accusa di stupro, il processo, il carcere, la redenzione, il ritorno sul ring, un paio d’arresti per rissa, un altro processo, un’altra cella, un altro stop alla carriera. La vita dell’ex campione del mondo dei massimi scandita dalla notorietà. Più cattivo era più piaceva. Il sadismo degli altri, Mike l’ha trasformato nella più perversa forma di masochismo: la cocaina ha bruciato gli ultimi brandelli di speranza. Destro, sinistro, knock out. Di nuovo: destro, sinistro, knock out. Questione di secondi, sempre. Ogni frazione un tot di soldi, per lui e per chi andava al tappeto. È finito tutto definitivamente nel 2005: «Basta smetto, sono finito». I guai economici non l’hanno mai mollato: affari sbagliati, cause legali e spese pazze, come una collezione infinita di auto di lusso, le tigri del Bengala che teneva nel giardino della sua villa e regali di ogni tipo per i suoi amici e le persone che lo circondavano. Gli amici, già. L’ex moglie ha cominciato a battere cassa: ha chiesto sei miliardi e mezzo di dollari per il divorzio. Alimenti.
Tyson ha messo in vendita le briciole del successo. L’ultima cosa è stata la sua villa nel Connecticut, chiedeva 25 milioni di dollari, è sceso a 4,75. Una casa con 38 bagni, 15 camere da letto, un teatro, una piscina coperta, un garage con otto posti auto. L’ha comprata 50Cents, il rapper, un altro maledetto, un altro abituato a bisticciare col destino. Ha detto, dice, dirà. Quella volta si confessò: «Sto combattendo con i demoni della mia mente. Sto vivendo un momento particolare: odio la mia vita, forse la prossima sarà migliore ed è proprio questo che mi spinge a farla finita». Era il 2003, prima della carambola, della luce. La marcia a zig zag, tra una nuova rissa e una scusa, tra un tiro di cocaina e una serie di sedute disintossicanti in Arizona.
A un certo punto ha pensato che quel piede che lo spingeva giù avesse allentato la presa. Spingi sui gomiti, Mike. Ha spinto, ha alzato la testa, ha tenuto alto lo sguardo: cattivo con quel tatuaggio che gli prende tutta la faccia, buono con gli occhi di chi ha deciso di chiedere perdono per sempre. Quattro anni fa, l’anno di Exodus, l’inizio del «nuovo Mike». Così s’è definito, così l’hanno chiamato. Nuovo, perché a 43 anni puoi essere ancora all’inizio dell’esistenza. Quando è arrivata la telefonata del destino stava per registrare uno show per promuovere il documentario su di lui. «È stato un incidente», gli hanno detto. Un incidente, sì. Mike la chiama maledizione: è più semplice.

Forse è anche più giusto.

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