Da Malick a Lino Banfi, i critici cinematografici vedono solo capolavori

Non avete visto l’ultimo di Ozpetek? Non sapete cosa vi siete persi, come minimo un capolavoro. Nessuno vede ogni anno tanti capolavori quanto i critici cinematografici, sarà perché nessuno sa bene cosa sia il critico cinematografico. La definizione migliore me l’ha data Vittorio Feltri, ai suoi esordi critico per caso: «Spiegavo agli altri quello che non avevo capito io».
In linea di massima non potete sbagliarvi: gli ultimi di Nanni Moretti, Paolo Sorrentino o Clint Eastwood sono capolavori a prescindere, non c’è neppure bisogno di fare la fatica di vederli. Ma è un capolavoro anche l’ultimo Cronenberg, A Dangerous Method, perché non sembra Cronenberg, o Inside man di Spike Lee perché sembrava un poliziesco e invece era Spike Lee. (Su Woody Allen basta dire: non fa più i capolavori di una volta, ed è fatta). Certo, con questa inflazione di capolavori, come chiamare i veri capolavori? Se Le fate ignoranti è un capolavoro, Otto e mezzo cos’è?
Non c’è limite nel capolavorismo critico, talvolta lievemente criptico per distinguersi dagli altri. The tree of life visto da Curzio Maltese: «un capolavoro contenuto e quasi imprigionato in una crisi mistica di arduo fascino». Prosa involuta ma obbligata perché Enrico Ghezzi si era già giocato la carta del «capolavoro assoluto», definizione che lascia perplessi: esistono capolavori relativi? E comunque The Tree of Life per Ghezzi sarà più o meno capolavoro di Persona di Bergman, che «è forse il capolavoro assoluto di Bergman»? Boh, di sicuro meno de L’Atalante, «il capolavoro assoluto della storia della settima arte». Emilio Ranzato, sull’Osservatore Romano, per The Tree of Life punta sul capolavorismo prudente: «È presto per dire se è un capolavoro assoluto», e ha ragione, aspettiamo, non c’è fretta, anzi stessero zitti.
Tra i capolavori ci sono perfino capolavori veri e propri punti di non ritorno, perché è vero che Eastwood da anni gira solo capolavori, ma Hereafter, scriveva Andrea Scanzi su La Stampa, pur essendo «il classico film che tra venti o trent’anni sarà ritenuto universalmente un capolavoro», non è «un capolavoro come Gran Torino, ma nessun film sarà mai come Gran Torino». Ecco. Nessun film, mai più.
Il quasi capolavoro, diverso dal tentato capolavoro, entra in gioco quando si è presi dall’entusiasmo infantile ma non si vuole esagerare per una forma di pudore, per esempio Paolo Mereghetti scriveva sul Corriere che Toy Story 3 «se non è un capolavoro, poco ci manca».
Un altro buon escamotage è la formula del capolavoro circoscritto a una tipologia, come L’ultimo terrestre di Gipi o L’arrivo di Wang dei Manetti Bros visto da Boris Sollazzo per il Sole24ore, «un capolavoro del cinema di genere». Con questo sistema, negli ultimi anni, si è sdoganato tutto: i capolavori del cinema degli anni Settanta, i capolavori della commedia all’italiana, i capolavori del cinema erotico, perfino i capolavori di Lino Banfi e anche Gola Profonda, il capolavoro del cinema porno. Sollazzo ha una discreta media di capolavori, talvolta matriosche simili a parti involontari o aborti incestuosi (The Road sarebbe «il presunto capolavoro di John Hillcoat, figlio del capolavoro vero di Cormac McCarthy»); oppure il non capolavoro che fa palpitare ma da non confondere con l’altro da non scomodare («Non un capolavoro, ma uno di quei film che ti scaldano il cuore (…) non scomodate il capolavoro di Garrone, però questo è un ottimo Di Robilant»); e senza dimenticare il capolavoro mancato per mancanza di coraggio, come Il mondo dei replicanti con Bruce Willis nei quali «forse per arrivare al capolavoro serviva più coraggio nei momenti cruciali».
Un altro virtuoso delle variazioni sul capolavorismo è Alberto Crespi, sull’Unità ha snocciolato ogni combinazione possibile. Dal capolavoro che scambia la forma con il contenuto (come The Queen, «un capolavoro di equilibrismo politico»), fino al top del capolavoro asserito con fede o credo religioso: «Noi credevamo, e crediamo ancora, che Noi credevamo (di Mario Martone, ndr) fosse e sia un capolavoro». Non manca il capolavoro usato per prendere distanza (tipo l’ultimo di JJ Abrams, Super Otto: «è bello, ma i capolavori sono diversi»).


Infine, volendo restare indecisi a vita, o si legge Maria Rosa Mancuso che non parla mai del film ma va per i fatti suoi come se fossero tutte sceneggiature di Guia Soncini, o si può tagliare la testa al toro tagliando il capolavoro in due, come Lietta Tornabuoni. Per lei Baarìa di Tornatore è «un capolavoro a metà». L’altra metà, al limite, come la Corazzata Potemkin per Fantozzi, potrebbe essere una boiata pazzesca.

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