C'è qualcosa di beffardo, o di diabolico, nel risorgere delle grandi potenze della storia. Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi, da decenni non più abituati ad assistere a cambiamenti epocali, e forse per questo faticano talvolta a rendersene conto. La potenza americana si sta sgretolando assieme al tipo di economia che ne ha costruito la grandezza, proprio quando essa aveva raggiunto il culmine dell'astrattezza (che cos'è, altrimenti, questo predominio della finanza sull'economia reale?). Broker di borsa e grandi speculatori forse non hanno ancora coscienza di essere diventati, da «mano invisibile» del mercato ad «arma inconsapevole» di un nuovo assetto che potrebbe farli sparire. E suona beffardo scoprire che, proprio grazieal modello occidentale, antichi giganti addormentati stanno ritrovando la strada per il loro risveglio, che non sarà indolore per le nostre società opulente.
La Turchia, trascinata da una crescita impetuosa (+3 per cento), ha deciso di «reagire» e riprendere il posto di stato-guida del mondo islamico che aveva perduto dopo la prima guerra mondiale. La visita di Erdogan nelle fragili democrazie nate dalla «primavera araba» è il ritorno del Sultano. Accolto come un eroe in Egitto, in Tunisia e, domani, nella martoriata Tripoli, il leader turco sta ponendo le basi di un'egemonia che si riaffaccia sul Medioriente e promette di restituire dignità a quelle genti, finora strette nella morsa di dittatori corrotti amici dell'Occidente (anche Gheddafi lo è stato, sia pure segretamente) e un antidiluviano potere religioso, rancoroso e assai lontano da qualsiasi cultura moderna.
Ma è significativo anche che il «Dragone cinese», vissuto finora come una minaccia assoluta, ora si proponga suadente come la sirena capace di salvare un'Europa allo stremo. È cominciata la fase due, per l'economia più vitale del pianeta, dopo aver marciato sottotraccia - derisa e vilipesa per certe sue ingenuità o mancanze di bon ton - nell'acquisizione di esercizi commerciali, società medie e grandi, intere porzioni delle nostre città e degli stati Centro-africani. I mandarini di Beijing (nome con cui anche noi, presto, impareremo a chiamare Pechino) detengono gran parte del debito pubblico degli Stati Uniti e si apprestano a fare altrettanto con quello dell'Europa (cominciando magari da Grecia, Italia e Spagna). Senza contare che tra pochi anni, una quarantina scarsa, al miliardo e trecentomila cinesi dovremo aggiungere un miliardo e settecentomila indiani (altro Paese ormai all'avanguardia specie nei prodotti tecnologici), così che quasi la metà della popolazione mondiale sarà asiatica. L'ottanta per cento, se aggiungiamo il boom demografico che si attende in Africa. L'ottanta per cento di circa 10 miliardi di esseri viventi, con Europa e America del Nord relegati a periferia del mondo: nei numeri, prima ancora che nei fatti dell'economia.
Se pensiamo che tutto questo non avrà un prezzo sulle generazioni che verranno - e che alla nuova situazione si possa porre rimedio chiudendo le frontiere (o sparando ai derelitti che arrivano sui barconi) come propongono certi impauriti xenofobi - siamo non soltanto a digiuno di buonsenso e di conoscenze, ma anche fuori dalla storia. Il pericolo maggiore, in fondo, per un Davide che dovrà affrontare Golia senza neppure una fionda.
C'è un ruolo, cui possa aspirare l'Occidente in una situazione del genere, senza cadere in un ridicolo velleitarismo o in strategie belliciste che sarebbero ancora più grottesche? Forse sì: imparare a tendere la mano e avanzare da subito un invito a cena per tutti. Menù a scelta, parti uguali e conto diviso alla romana. Sempre che i nuovi ospiti, con l'acqualina in bocca che abbiamo fatto loro venire, vogliano accettare.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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