Non si potrebbe credere (penso alla faccia del mio amico Venceslao di Persio) che, compulsando Google, alla voce «Antonio Mancini» la prima uscita con fotografie, interviste, narrazioni e un inizio di leggenda, sia la seguente: «Antonio Mancini, detto Accattone, è un collaboratore di giustizia, ex mafioso italiano ed esponente dell'organizzazione malavitosa romana Banda della Magliana». Ero rimasto al mio vecchio professore di italiano Antonio Piromalli, studioso di Ariosto, Parini, Pascoli, Gozzano, Michaelstaedter, frequentato per anni e rinfacciatomi per aver incontrato, da parlamentare, il suo omonimo esponente della 'Ndrangheta, nel carcere di Palmi, per circa dieci minuti. Sic transit gloria mundi.
D'altra parte, con una minima variante, ho sentito ricordare gli estremi del mio ultimo libro, Dal mito alla favola bella. Da Canaletto a Boldini (La nave di Teseo), intendendosi Giovanni Boldini, meraviglioso artista ferrarese tra Otto e Novecento, equivalente di d'Annunzio in pittura. Antonio Mancini è un grande virtuoso come lui, ma tutto versato nel colore più che nel disegno, che è l'anima della pittura di Boldini. A Mancini il disegno importa poco, anzi è sostituito dalla fotografia. Con la quale, fagocitandola, aprirà un conflitto a fuoco, proprio attraverso il colore, in tutte le fasi della sua attività. Finisce un'epoca con la nascita del movimento futurista, nella prima decade del XX secolo. Siamo nel 1909; e la storia della pittura sembra chiudersi con il fregio di Giulio Aristide Sartorio nell'aula di Montecitorio, mentre Marinetti pubblica sul Figaro il manifesto del Futurismo. Antonio Mancini, dieci anni più giovane di Boldini, cento anni esatti più di me, nasce nel 1852. Per dire, nel 1898 lo ritrae il più grande pittore americano, John Singer Sargent. E nella prima monografia di G. Guida del 1921 (l'anno di nascita di mio padre), dedicata a Mancini, si legge: «Avevo ventidue anni quando, quarant'anni fa, la prima volta a Parigi, dove Mancini aveva lasciato una scia, vidi dal Goupil, suocero di Leone Jerome, stupendi dipinti del maestro italiano. Allora nel 1882, Parigi era una fucina ardente di ardente pittura, le opere di Cézanne, Van Gogh, Manet, Pissarro, Renoir, Degas, erano materia viva e informativa. Fra quella linfa Antonio Mancini aveva tuffata la sua vivacità meridionale avida e conquistatrice».
È la stessa dimensione internazionale riconosciuta a Boldini, il prestigio che ci dovrebbe indurre a considerare Mancini non inferiore dell'intelligenza e virtuosismo del miglior impressionista. La considerazione in Italia è confermata dalla nomina ad accademico di merito all'Accademia di San Luca, su proposta di Sartorio nel 1913. Un magistero che va da Tiziano a Schifano, da Rembrandt a Warhol. A rivelare il suo smaliziato uso della fotografia sarà il suo grande e dimenticato allievo Brancaleone da Romana. Singolarmente nel 1934, a quattro anni dalla morte del pittore, fu la giovanissima Palma Bucarelli a scrivere di Mancini nella sede ufficiale e istituzionale del Dizionario biografico degli Italiani della Treccani. Dopo gli studi con Domenico Morelli il primo stile di Mancini si conferma nella seconda dimora napoletana (1879-1883). E sono subito capolavori: Prevetariello, Scugnizzo, Rose, Il voto a San Gennaro. Dentro c'è l'esperienza di Parigi e di Londra in una fortissima contaminazione del gusto internazionale con la pittura napoletana del '600, da Ribera a Mattia Preti, a Massimo Stanzione. Il virtuosismo pittorico è analogo a quello verbale di d'Annunzio».
Mancini aveva esordito nel 1868 con lo Scugnizzo o Terzo comandamento insieme a Dopo il duello, folgorante prova di un magistero degno dei maestri antichi. Iniziò a lavorare insieme a Vincenzo Gemito nello stesso studio con il potente scultore di Acireale Michele La Spina e con il pittore Vincenzo Volpe. La Figura con fiori in testa del 1871 esposta alla Promotrice di Napoli gli aprì la strada, attraverso il musicista belga Albert Cahen, alla società cosmopolita e al mondo artistico internazionale. Espose ai Salon parigini, del 1872, Enfant allant à l'école, e del 1873, Orfanella. Nello stesso 1873 Mancini è a Venezia e a Milano, nel '74 con Gemito, Edoardo Dalbono e Francesco Paolo Michetti, frequenta Villa Arata di Portici dove viveva e lavorava Mariano Fortuny. Da qui discende l'incontro con il mercante Adolphe Goupil evocato dal Guida. Ancora nel 1877, a Parigi, Mancini porta il Saltimbanco alla Esposizione universale. L'anno dopo si infrange l'amicizia con Vincenzo Gemito per un infelice patto non rispettato. Con l'impronta di un fallimento umano, se non artistico, Gemito torna a Napoli nello stesso anno, e dà segni di turbamenti psichici sempre più frequenti. Tanto che nel 1881 è internato nel manicomio provinciale di Napoli. Neanche nei mesi di ricovero, fino al febbraio 1882, smette di dipingere.
Sono di questo tempo i ritratti del dottor Bonomo, del dottor Cera, e numerosi autoritratti, come tormentati diari della follia. Dimesso dall'istituto di cura Mancini, si trasferisce definitivamente a Roma nel 1883. Inizia in quell'anno il sodalizio con il marchese Giorgio Capranica del Grillo, figlio di Giuliano e dell'attrice Adelaide Ristori (da lui ritratta nel 1889) e che abitava, altra singolare coincidenza, nel palazzo dove io vivo oggi a Roma. Roma è casa, Venezia il teatro dove Mancini incontra artisti e collezionisti nel meraviglioso Palazzo Barbaro, fra i dipinti di Sebastiano Ricci e Giambattista Piazzetta, e dove vive Daniel Sargent Curtis, cugino del grande pittore americano (di cui io ho a lungo, nel mio periodo veneziano, frequentato gli eredi). Nel 1887, ospite in Palazzo Barbaro, Mancini è presente alla Esposizione nazionale, e qui matura il sistema della doppia graticola sperimentata in dialogo tra fotografia e prospettiva, tra la fine degli anni '80 e '90. In quegli anni, pur riconosciuto, Mancini appare un artista eccentrico. Nel 1894 dipinge il ritratto della signora Pantaleoni, poi presentato e premiato alla Esposizione universale di Parigi del 1900. Nel 1895 incontra a Roma Isabella Stewart Gardner, fondatrice dell'omonimo museo di Boston, che aveva acquistato dai Curtis il Ciociaretto portastendardi. Isabella gli commissionò il ritratto del marito da dipingere in palazzo Barbaro. Così Mancini arrivò a Venezia in maggio, e visitò la prima Biennale internazionale d'arte, nella quale era presente con il Ragazzo romano e Ofelia. Partecipò regolarmente alle successive edizioni fino al 1914. Dopo il successo del ritratto della signora Pantaleoni Mancini fu invitato a Londra, dove eseguì il ritratto di Claude Pensomby e di Haroldino.
Il soggiorno londinese non fu fortunato, ma nelle altre parti d'Europa, dopo una mostra organizzata a L'Aia arrivarono riconoscimenti dalla Germania, dall'America, dall'Irlanda. Così nel 1907 Mancini torna a Londra, dove dipinge apprezzati ritratti per la famiglia Hunter e Oxsenden. Tornato a Roma nel 1908, Mancini lavora per il mercante tedesco Otto Messinger, da lui potentemente ritratto, ed è suo ospite a Palazzo Massimo alle colonne (dove io ho vissuto dieci anni). Per Messinger dipinse figure in costume, a integrazione di ricchi arredamenti, e con lui fu nel 1910 in Germania, dove incontrò Von Stuck. Come indica la Bucarelli, potenziò con audacia la sua materia pittorica. Interrotti i rapporti con Messinger, iniziò a lavorare per Fernand Du Chêne de Vere, industriale francese trasferito a Milano, che gli allestì una casa e uno studio scenografici, con costumi e arredi per ogni ambientazione, a Villa Iacobini a Frascati. Nel 1920 ebbe pieno riconoscimento, con una mostra personale, alla XXII Biennale di Venezia. Seguirono una mostra a Milano, in Castello Sforzesco, nel 1923, e una a Londra, nella galleria Knoedler, nel 1928.
Nel 1930 Mancini morì, carico di gloria, che iniziò a disperdersi nel dopoguerra. Nel 1941 la giovane Bucarelli assunse, per quasi quarant'anni, la direzione della Galleria nazionale d'arte moderna di Roma e acquistò per lo stato il Grande sacco di Burri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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