Manda una mail e in tre ore seduce il «New York Times»

Questa è una storia di speranza per tutti i giovani senza lavoro. A scriverla è stato un ragazzo che nel 2008, quando aveva appena 24 anni, è riuscito dalla mattina alla sera a farsi reclutare dal più importante organo di stampa del mondo, semplicemente inviando un messaggio di posta elettronica alla redazione. Non dovete pensare al giapponese Yomiuri Shinbun, che con i suoi 14 milioni di copie al giorno non ha rivali sul pianeta quanto a diffusione. Le copie non basta contarle, bisogna anche pesarle, e quelle del New York Times, nonostante siano appena 917.000, hanno di sicuro un peso specifico che nessun altro quotidiano può vantare.
È lì, al Nyt, l’unico giornale ad annoverare fra le sue firme ben 107 premi Pulitzer dal 1917 a oggi, che s’è stabilmente accasato il milanese Francesco Bongiorni, nato a Garbagnate nel 1984 e da tre anni residente a Madrid. Di professione fa l’illustratore. Il suo compito è quello di arricchire la pagina che ospita gli ispirati editoriali del New York Times o di corredare i grintosi reportage degli inviati speciali. Niente a che vedere col verismo delle tavole di quell’Achille Beltrame da Arzignano (Vicenza) che all’età di 28 anni, quattro più di Bongiorni, fu chiamato da Luigi Albertini a disegnare le copertine della Domenica del Corriere e rimase fedele alla sua sposa dal primo numero, uscito l’8 gennaio 1899, fino a quando depose le matite colorate e morì, il 19 febbraio 1945, senza mai concedersi un giorno di ferie.
Nei lavori del giovanotto, al contrario, prevalgono le atmosfere rarefatte, surreali, magrittiane, popolate da omini pensosi apparentemente dediti ad attività assurde: un distinto signore che scruta nelle profondità di un codice a barre trasformato in tombino; un pescatore che getta l’amo in un cervello; un muratore sulla scala che appiccica sul display di un enorme Iphone le icone delle varie applicazioni come se fossero altrettante piastrelle. Ma anche le due Torri gemelle fatte di corpi accatastati per commemorare il decennale degli attentati dell’11 settembre; una donna che scosta una tenda rossa su cui campeggia la falce e martello e sotto, appeso al muro, trova un ritratto di famiglia; una ragazza iraniana avvolta nel chador che fronteggia da sola un manipolo di lugubri poliziotti in assetto antisommossa, avendo come unica difesa, fra sé e gli sgherri nerovestiti del presidente Mahmud Ahmadinejad, la banda bianca orizzontale che separa il verde dal rosso nella bandiera persiana.
Il fatto è che Bongiorni non s’è limitato a inventarsi un lavoro - e che lavoro - semplicemente standosene seduto al computer. No, nel giro di poco tempo s’è anche conquistato una clientela da far invidia ai più famosi professionisti del ramo. Infatti le sue illustrazioni sono apparse e appaiono anche su altre famose testate statunitensi come Washington Post, Wall Street Journal, New Yorker, Businessweek, Boston Globe, Boston Magazine e Wired, e poi sull’inglese Guardian, sul canadese Globe and Mail, sullo spagnolo El Mundo, sul tedesco Der Freitag, sugli italiani Corriere della Sera, Sole 24 Ore, L’Espresso, Panorama Economy e Limes. Ma disegna anche per la Yale University, per l’Harvard Business Review edita dalla Business School di Boston dove si laureò George Bush figlio e per la rivista della Princeton University dove insegnò Albert Einstein.
Ad appena tre anni dall’esordio, e questo è forse l’aspetto più stupefacente, Bongiorni è già stato inserito - unico italiano accanto a quattro americani, due cinesi, due coreani, un inglese, un serbo, un croato, un indiano e altri emergenti di varie nazionalità - nel portfolio Visual Artists 2011 di Print Magazine, la rivista statunitense di arti grafiche che ogni anno lancia il concorso 20 under 30 per individuare in tutto il mondo 20 fra designer, illustratori e fotografi di età inferiore ai 30 anni. Un riconoscimento doppiamente importante, perché a 20 under 30 non si può concorrere: è Print Magazine che stila la classifica interrogando gli art director delle principali case editrici internazionali.
Bongiorni si considera figlio d’arte. Il padre Paolo, architetto con studio a Cormano, progetta abitazioni e sedi di banche. Il fratello Marco, pittore, insegna alla Naba di Milano, la Nuova accademia di Belle arti frequentata anche da Francesco («all’ultimo anno di corso ebbi la sorpresa di ritrovarmelo nella commissione d’esame»). La sorella Alice è direttrice di doppiaggio e doppiatrice a sua volta. Il nonno materno, Ermanno Romanò, era scultore; spedito in guerra sul fronte greco-albanese, tenne un diario della sua odissea con i disegni anziché con le parole.
Dopo essere uscito dal liceo artistico di Desio, Bongiorni è stato per anno all’Università di Belle arti a Salamanca col programma Erasmus e poi s’è iscritto all’Istituto europeo di design a Milano.
Perché ha scelto l’illustrazione?
«Non ero portato per fare il pittore. M’interessava di più raccontare storie per immagini, come mio nonno. Soprattutto non mi andava di aspettare che un gallerista mi notasse per cominciare a lavorare. I pittori sono diventati molto remissivi, devono stare al gioco dei mercanti d’arte, un circuito che non m’è mai piaciuto».
Da ragazzo che fumetti leggeva?
«Asterix e Tex. E poi Zanardi, il personaggio disegnato da Andrea Pazienza».
Simbolo di desertificazione morale: «La caratteristica principale di Zanardi è il vuoto, l’assoluto vuoto che permea ogni azione», diceva il suo autore.
«Apprezzavo il disegno. Era divertente».
Non capisco che cosa ci sia di divertente in un tizio che fa uccidere la preside del liceo dal secchione della classe.
«Cattivo ma ironico. Anticonvenzionale. Faceva il verso agli anni Ottanta».
Al New York Times come c’è arrivato?
«Da solo. Il 1° maggio 2008 ho inviato una mail molto semplice: mi chiamo Francesco Bongiorni, questi sono i miei lavori, vorrei poter collaborare. Nel pomeriggio dovevo raggiungere l’isola d’Elba con alcuni amici per una breve vacanza, avevo già prenotato traghetto e hotel. Tre ore dopo, prima di partire, ho controllato per caso la posta elettronica e ho visto che c’era una risposta del Nyt».
Che cosa diceva?
«“Potrebbe mandarci entro sei ore un’illustrazione sulle tensioni fra Cina e Russia?”. Ho telefonato ai miei amici: partite da soli. E mi sono messo subito al lavoro».
«Ecco la prima triste verità sulla professione di illustratore: la fretta», come insegnava Achille Beltrame.
«Queste missioni impossibili mi hanno subito entusiasmato. Quando sono sotto pressione, riesco a dare il meglio di me stesso. Ho la sindrome da foglio bianco».
Ne soffriva anche Indro Montanelli, al pari di tutti i grandi giornalisti.
«Con un argomento ben preciso da rappresentare, un formato e soprattutto un orario di consegna, sono paradossalmente riuscito a sbloccarmi e a ottenere risultati migliori. Il Nyt mi chiama quando a New York sono circa le 11, quindi le 17 da noi. Ho tempo al massimo fino alle 24, fuso d’Europa, per consegnare. È come ricevere una scarica di adrenalina. In questo spazio ristrettissimo devo tradurre l’articolo che mi hanno chiesto d’illustrare, documentarmi sul tema trattato dal giornalista, mandare all’art director un bozzetto per l’approvazione, eventualmente correggere, eseguire il definitivo e spedire».
E che temi le assegnano, di solito?
«Credo d’essere diventato il loro arabista. Tutti i disegni che riguardano l’Islam, il Medio Oriente, l’Afghanistan, Al Qaida, e più in generale il terrorismo di matrice musulmana, capitano a me».
Bravura a parte, perché al New York Times avranno puntato proprio su di lei?
«E chi lo sa? Magari mi ha portato fortuna il cognome facilmente memorizzabile, come capitò a Mike Bongiorno. I clienti americani scherzano sulla mia identità: “Buongiorno, Bongiorni”. Figli e nipoti di immigrati usano l’inglese quando mi devono dare istruzioni di lavoro, ma per parlare del più e del meno amano far sfoggio dell’italiano stentato appreso in famiglia. Non si ha idea di come sia radicato negli States l’amore per il nostro Paese».
Quanto le hanno pagato quel primo disegno?
«Se non ricordo male, 500 dollari. Ma la soddisfazione più grande è stata vedere la dicitura “Francesco Bongiorni” sotto la tavola che appariva anche nell’edizione online del Nyt. Solo in quel momento ho realizzato pienamente la fortuna che mi era capitata. Mentre disegno, sono talmente preso che nemmeno mi ricordo per chi sto lavorando. Metto molta cura nei dettagli. Per raffigurare un gruppo di guerriglieri islamici di varie nazionalità sono andato a controllare una per una le differenze d’abbigliamento fra talebani, pakistani, palestinesi, yemeniti».
Ma c’è Dio o il diavolo nei dettagli?
«Un po’ di entrambi. Sono la parte più difficile. Se disegnati bene, rendono l’illustrazione unica, pulita. Se sono troppi e troppo leziosi, piccoli, estremizzati, la tavola diventa pedante. A volte nascondo qualche scherzo fra questi elementi. In una specie di parlamento stilizzato realizzato per la copertina di Der Freitag ho inserito le silhouette di Michele ed Erika, i miei migliori amici, che vivono ad Heidelberg, in Germania, lui fotografo, lei ricercatrice, prendendoli dai loro profili su Facebook. Poi li ho invitati a recarsi in edicola il venerdì: benché fossero due ritratti microscopici, si sono riconosciuti».
Perché è andato a vivere in Spagna?
«Non certo per astio verso l’Italia, nonostante Madrid sia zeppa di nostri connazionali così inveleniti da dire: “Che schifo Milano!”. Non è il mio caso».
Allora perché?
«Per amore. All’Università di Salamanca ho conosciuto Ana, che fa la guida turistica al Museo del Prado».
Dove abitate?
«In un appartamentino di 55 metri quadrati nei pressi dello stadio Santiago Bernabéu. Ci costa 760 euro al mese d’affitto, ma stiamo per trasferirci in un alloggio da 850 euro, con 20 metri quadrati in più, dove avrò uno studio tutto per me. Finora ho dovuto lavorare sul tavolo del soggiorno».
Che cos’ha la stampa americana che quella italiana non ha?
«Il gusto del disegno. Negli Usa gli art director dei giornali sono illustratori, da noi grafici, fotografi o giornalisti. E la professionalità. Quando lavoro per loro, percepisco che si fidano ciecamente di me. In Italia non sai mai come andrà a finire. Sono tutti più nervosi».
Gli americani pagano anche di più.
«Di più e subito. In 15 giorni ti arriva a casa l’assegno. In Italia devi aspettare come minimo due o tre mesi, se va bene».
Ora quanto guadagna?
«Per una tavola a tutta pagina almeno 1.000-1.200 dollari. L’International Herald Tribune mi ha pagato alcuni disegni già apparsi sul Nyt nonostante l’editore che stampa i due quotidiani sia lo stesso».
E quando le bocciano un lavoro?
«Abbozzo un sorriso e ricomincio daccapo. Prima impreco e spezzo qualche matita, ma il cliente non può vedermi».
Hai mai fatto la fame all’estero?
«Sì, nel 2008. Sono stato un incosciente a trasferirmi subito a Madrid. Avevo poco lavoro e dovevo pagare l’affitto. Mi sono spaventato. Allora sono tornato in Italia a decorare muri e pavimenti di negozi e showroom fra Milano e Treviglio».
Che consigli darebbe ai suoi coetanei che non riescono a trovare un lavoro?
«Di lavorare tanto, tantissimo. Di immaginarselo, un lavoro. Di cercarlo in modo trasversale. Di usare la fantasia. Di buttarsi e di provare. Il mio lavoro non esisteva. Me lo sono dovuto creare da solo».
Non la spaventa il fatto di non avere un posto fisso e di essere in balia degli umori dei suoi committenti?
«Solo per brevi periodi. Quando per due settimane di fila non squilla il telefono, comincio a inquietarmi. È il momento in cui devo mantenere la calma. Tanto so già che poi i lavori da fare arriveranno tutti insieme e dovrò stare in piedi a disegnare anche di notte».
E per la pensione come farà?
«Eeeh... uhm...». (Ride). «Se mi metto a pensarci, mi viene il mal di testa. Mi farò una pensione integrativa. E lavorerò anche dopo aver raggiunto l’età pensionabile».
Ha un sogno nel cassetto?
«Mi piacerebbe avere più tempo per lavorare su un progetto personale riguardante gli zombie».
Crede ai morti viventi?
«No, ma sono un patito dei film del regista George Andrew Romero. L’ho anche incontrato a un concerto del jazzista Paolo Fresu, che mi aveva invitato in segno di riconoscenza per avergli disegnato la copertina di un suo Cd. Gli zombie sono un anticipo dell’apocalisse, infettano il mondo. Ci vedo un parallelo con questa situazione di contagio finanziario, in cui l’aggressività aumenta. Mi capita anche di passare interi pomeriggi al Prado a osservare Il Trionfo della Morte di Pieter Bruegel.

Non esiste una rappresentazione più brutale e minuziosa del destino che tutti ci attende».
Tocchiamo ferro, va’.
«Poi torno a casa e mi consolo ascoltando il flamenco di Diego El Cigala».
(571. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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