Così, all'improvviso, convinsi il "Manga" a pubblicare i suoi "Improvvisi"

Mi innamorai di Giorgio Manganelli nel 1979 leggendo Centuria, un incredibile libro fatto di cento romanzi di una pagina l'uno

Così, all'improvviso, convinsi il "Manga" a pubblicare i suoi "Improvvisi"

Mi innamorai di Giorgio Manganelli nel 1979 leggendo Centuria, un incredibile libro fatto di cento romanzi di una pagina l'uno: non racconti, né sintesi, proprio romanzi, aperti, sviluppati e chiusi in una pagina. Poi lessi tutto quello che potei - Hilarotragoedia, naturalmente - e comprai ogni giorno il Messaggero da quando cominciarono a uscire i suoi «Improvvisi per macchina da scrivere». Erano quasi sempre lampi di genio, centurie in corsivo, ironica eleganza linguistica, furbesco grimaldello alle esilaranti demenze della vita quotidiana.

A quei tempi direttore editoriale della Mondadori, mi era riuscito di convincere Indro Montanelli a tradire per una volta Rizzoli e a pubblicare da noi una raccolta dei suoi «Controcorrente». Decisi di provarci anche con quello che tutti chiamavano quasi sempre senza conoscerlo - Manga. Impresa disperata, pubblicava altrove e autori come lui guardavano con alterigia alla Mondadori, giudicata troppo commerciale. E poi si diceva Giorgio Manganelli non si curava dei suoi libri, e non amava gli editori, tutti.

Ma avevo voglia di conoscerlo, e lo chiamai. Una voce calda, gentile. Sapevo che gli piaceva mangiare bene, e lo invitai in un ristorante romano alla moda, cafone che fui. Si diceva che era un orso, che non lo si vedeva mai, che non aveva amici, tanto meno nel mondo editoriale. Insomma, ero in soggezione. Lo sarei stato molto di più se avessi letto un libro uscito in questi giorni, Giorgio Manganelli. Aspettando che l'inferno cominci a funzionare (La nave di Teseo): l'ha scritto la figlia (unica) Lietta, con amore senza paraocchi. È la storia di una vita che non si immagina, madre castrante, moglie terribile, e più di tutti castrante e terribile lui, Manganelli.

Insomma, io era già al tavolo, lui arrivò. Da uno sguardo mi sembrò di capire che gli piacesse il mio sciatto vestire, simile al suo, di chi non cura l'eleganza e perciò è elegante davvero. Scelse con cura i piatti, poi sapevo anche che amava il buon bere gli chiesi di scegliere il vino. Si dedicò alla lista come un filologo esaminerebbe una cancellatura d'autore, e di colpo la gettò stizzito sul tavolo: «Qui ci sono vini da un milione», disse. Scelsi una bottiglia che stava decentemente sotto quella cifra.

Di raccogliere gli «Improvvisi» non volle quasi parlare, gli sembrava un'operazione inutile. («È più importante scrivere un libro che pubblicarlo», disse nel 1953, lo apprendo ora dal libro di Lietta.) Credo invece che abbia apprezzato la mia conversazione, lontanissima dai mondi dell'editoria, della letteratura, degli intellettuala, come li chiamava. Raccontavo storie, facendo senza rendermene conto, allora, delle centurie a modo mio, applicando quella che si diceva fosse una delle sue regole, «Chi dice la verità ha una vita sola, chi mente ha tutte le vite che vuole». Ogni tanto emetteva qualcosa che somigliava a una risata, rispondeva con storie di cui era difficile capire il capo e la coda, però il corpo era più che sufficiente.

Lo invitai di nuovo e stavolta scelse lui il ristorante, più alla mano e di cucina sicura. Avevo avuto anch'io il colpo di genio, concordando con l'oste che coprisse il prezzo dei vini. Quando se ne accorse, mi lanciò uno sguardo di traverso, credo divertito e grato. Scelse a colpo sicuro il vino più caro, forse d'istinto, forse a memoria.

Lo invitai ogni volta che andavo a Roma (non sempre accettava), anche se avevo perso la speranza di pubblicare gli «Improvvisi», non se ne parlava neanche più. Poi la Mondadori passò di mano, De Benedetti licenziò nientemeno che Leonardo Mondadori, e anche me. Seguii Leonardo, in una nuova casa editrice, la Leonardo, appunto. Passarono mesi dall'ultima volta, soldi ce n'erano meno, e quando lo invitai di nuovo scelsi io il vino, badando al prezzo. All'improvviso dico non a caso fra il primo e il secondo soffiò «Allora, gli Improvvisi?».

Non so se a deciderlo fu che non si trattava più della Mondadori, o perché avevo smesso di fare lo sbruffone con i vini, fatto è che gli Improvvisi per macchina da scrivere uscirono dalla Leonardo nel 1989, un anno prima che Manganelli morisse.

Non l'avevo più visto né sentito, dopo l'uscita: «Con i libri che portano il mio nome ho concluso un patto», scopro ancora in Lietta: «Non li rileggerò più e cerco di dimenticarli». Oggi lo potete trovare in edizione Adelphi.

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