Milano - E dire che lui non ne aveva aveva voglia, e che la gente avrebbe dovuto non averne voglia. E dire che il Duomo è un posto che schiaccia tutto: troppo largo, troppo lungo, troppe guglie... Uno avrebbe detto che forse sarebbe stato meglio farci una partita a tennis che portare in scena una lettura. Esercizio scarno, passatempo lieve, coreografia povera per muri tanto sontuosi. E dire che Giorgio Albertazzi si era detto, ancora prima di iniziare, più motivato dal mestiere che dalla passione per il testo. E dire che Giorgio Albertazzi aveva sottolineato, ancora prima di iniziare, che un po’ per colpa dei professori, un po’ per colpa dei libri di testo, un po’ per colpa dei banchi di scuola, l’opera è stata una delle più odiate dagli studenti di ogni epoca. E dire che nessuno pensava fosse una buona idea leggere lui al Duomo di Milano, sotto lo sguardo della Madonnina: il punitivo e autopunitivo Alessandro Manzoni. Il Manzoni dei Promessi Sposi, per di più, che è il più austero che mai, il più insoddisfatto che mai (è proprio nel 1827 che gli venne l’esigenza di «risciacquare i panni in Arno»). E poi sorridevano tutti all’idea di attualizzare quel testo. Con quei due fidanzati trafitti dalla sorte, vestiti di qualcosa, tiepidi di passione. Siamo onesti, qual è la donna che oggi, rapita da un don Rodrigo, sceglierebbe di tornare tra le umili e scalognate braccia di Renzo Tramaglino?
Eppure è stato uno show di rara prepotenza. Garbato ma prepotente. Nel Duomo gremito di milanesi e punteggiato di vip della tv e non solo. Avvistati qua e là Amadeus e Giancarlo Magalli, il dg della Rai Mauro Masi e il produttore David Zard, Milo Infante e Elisabetta Gardini. Con le musiche di Pippo Flora, i testi su Fede, Speranza e Carità, la regia e la produzione di Michele Guardì, la conduzione di Lorena Bianchetti la diretta di Raitre, l’istrionico, geniale Giorgio Albertazzi, la compagnia del Teatro Musicale di Guardì, quaranta tra attori e corsiti, compresa Lola Ponce. Una «prova generale» in attesa di replicare il 18 giugno allo stadio Meazza di San Siro. Quando si farà sul serio. I Promessi Sposi nel regno di Mourinho. Guardì ha fatto una magia già ieri sera, dopo chili di tv per tutti, il terremoto elegante nel tempio milanese. Non si riesce ad immaginare come avrebbe potuto fare, un ex avvocato, ad agganciarsi meglio ai suoi sogni di bambino. Ieri lo spettacolo era per beneficenza, ovviamente. A chi destinare il tutto (il Fondo Famiglia Lavoro) l’ha deciso l’Arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, ad inventarsi il tutto, l’assessore ai Grandi Eventi del Comune, Giovanni Terzi.
Navate ieri, reti e prato verde tra un mesetto per il più buonista dei romanzi. E in scena lui, buonista per nulla, politicamente corretto per nulla. Carmelo Bene e Vittorio Gassman sono già stanchi di essere morti, mentre lui, classe 1923, è un monito vivente al presidente della Camera, Gianfranco Fini: se a ottantasette anni è ancora qui a far scavallare la sua voce per tutte le navate del Duomo, occhio a Berlusconi. Probabilmente hanno lo stesso medico.
Nel 1943 Albertazzi aderisce alla Repubblica di Salò, e comanda perfino un plotone d’esecuzione, leggenda narra. Nel 1945 è arrestato per collaborazionismo, nel 1947 è liberato per l’amnistia Togliatti. Si laurea in architettura, si dà al teatro, alla tv, allo spettacolo. L’unico giornale per cui collabora nella sua vita è Il Borghese diretto da Vittorio Feltri. Scrive malissimo ma ha un sacco di cose da dire. È Giorgio Albertazzi... Rifiuta di sposarsi per lustri, non avverte l’esigenza di riprodursi: dopo di lui, il diluvio. Si narra di una sua storia con Anna Proclemer. Si piega al piccolo schermo per lo «scorretto» Dante Alighieri: l’anno scorso, su Raidue, ha registrato una lettura della Divina Commedia fra le rovine del centro storico di L’Aquila, in seguito al terremoto del 6 aprile. Gli piace l’Inferno, sa chi mettere in Purgatorio, trova un senso perfino nel burroso Paradiso. Perché il mondo non può avere una sola faccia. E Albertazzi, in una vita, le facce le ha incontrate tutte. A un certo punto, nel 2007, depone le armi e si sposa: il 12 dicembre, a Roma, con rito civile, con la nobildonna fiorentina Pia De’ Tolomei. I due hanno 36 anni di differenza: ottantaquattro Albertazzi, quarantotto la neo-moglie. Due cifre invertite per un destino comune. Ruvido, inimbrigliabile, mai domo. Per forza scalciava, ieri sera. Sul testo più accomodante per i ben pensanti. Sul testo più distante dalla sua vita a gobbe. Magistrale e lontanissimo. Col Duomo che è diventato improvvisamente piccolo piccolo per contenerlo tutto, Giorgio. Lui e la sua tanta vita. Lui e le sue sfumature. Tutte arrabbiate, dal bianco al nero. Soprattutto nero. Non ci stava nell’amore tiepido, pronto a farsi vincere dal fato, pronto a lasciarsi attraversare da tutti quelli che si erano messi in mente di sporcarlo. Però è Albertazzi. Ha dato una forza a quei due disgraziati, raccontati da un geniale compresso, che ha attraversato tutte le arcate del gelido «mausoleo». Ha fatto venire caldo, a tutti, con la sua voce pastosa e intatta, con la sua convinzione di mestiere che era molto meglio di certi giovanilistici entusiasmi. Albertazzi e il Duomo di Milano improvvisamente troppo piccolo per contenerlo.
Albertazzi e il Manzoni dei Promessi Sposi, improvvisamente troppo rigidi per raccontarlo. Fortuna che c’erano quella musica e quelle voci sublimi a comprimere e a mischiare un po’ tutto quello che sotto alla Madonnina, di Albertazzi, ieri sera in Duomo non ci sarebbe stato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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