(...) «Quella dev'essere stata la prima volta che ho visto l'invidia». Linvidia dei ragazzini, non quella complessa degli adulti. Un sentimento basilare. Quella bicicletta diventò scambio di simpatie. (...) Parla di un periodo in cui non aveva ancora dieci anni. Abitava ancora a Marassi, quartiere periferico, in una casa a Salita dell'Aquila 9. La casa dei nonni, quella a cui più è legato. Lì è cresciuto, lui, nato il 21 settembre 1951. Dalla cucina vedeva il mare, al piano inferiore un radioamatore con un apparecchio gigantesco. Poteva parlare con l'America.
In America, sei e trentuno anni prima, erano nati Keith Jarrett e John Lewis. Entrambi pianisti, entrambi a maggio. Il primo ad Allentown, Pennsylvania. I1 secondo ad Albuquerque, Nuovo Messico.
La casa c'è ancora, sempre gialla, a due piani. Il giardino no, inghiottito da un palazzo. Gli ha ispirato Quante estati quanti inverni. «Davanti alla mia casa ci hanno fatto un palazzo così alto/ che il vento in strada, non lo sentiamo più».
La musica era una cosa lontana, ma presente. Sua madre, Germana, lo aveva iscritto fin da quando aveva otto anni a lezioni private di pianoforte. Quelle lezioni non facevano invidia a nessuno. Anzi, lo rendevano, agli occhi dei coetanei, particolarmente sfigato. «Guarda quello lì, oltre alla scuola gli tocca tornare a casa alle quattro, posare la cartella, prendere i libri di musica, andare alle cinque e tornare alle sei».
Quando gli altri potevano andare sulla piazzetta a giocare, doveva fare il cambio dei libri e ritornare in fondo alla strada. A suonare i minuetti. Che poi, già allora, i minuetti mica importavano a nessuno. Ne avesse trovato uno, uno solo, che in quegli anni, ma anche dopo, gli abbia chiesto dei minuetti.
A dieci anni ti importa di rubare l'uva, mica del minuetto.
Giocavano anche a calcio, il pallone era qualcosa che andava diviso per forza. Già allora era un calciatore squisitamente inetto. I virtuosi facevano gli attaccanti, gli stoici i portieri. Lui, il difensore. La sua dote maggiore, conservata, è svirgolare la palla. Non ha mai tifato per nessuna squadra, se non - appena un po' - per la Sampdoria.
Non è mai stato un grande sportivo, se non nel periodo delle medie. Ha fatto atletica, vinto qualche medaglia nelle corse sulla lunga distanza. La madre le conserva ancora.
Giocavano a calcio in una piazzetta che gli sembrava enorme. Uno slargo di via Remigio Zena, poco sotto le finestre della sua casa sopra Marassi. All'epoca non c'erano automobili, al massimo qualche «Ape» e una 600. Di recente c'è ripassato, quella piazzetta era minuscola. Oggi è un parcheggio, sempre pieno.
Un giorno, di sua iniziativa, mi ha portato a vedere quella che chiama «la nostra Penny Lane». Il «quartieraccio» in cui è cresciuto.
Mi ha fatto vedere la sua Genova, quella in cui è cresciuto. Marassi, Carignano. Era solitamente vestito da «rapper attempato», come dice lui. Un cappello azzurro con scritto «Santorini», una maglietta bianca a maniche corte con al centro un'orma gialla, logo del Festival di Locarno. Pantaloncini beige alla pescatora, scarpette nere. Non c'era un solo colore che anche solo ambisse minimamente a intonarsi con il resto. Volutamente. Una volta sceso dal palco, l'eccesso daltonico è il suo modo di nascondersi. Proteggere il nido. Dice che piazza Ferraris, dove sorge la scuola elementare che ha frequentato, la Generale Cantore (allora si chiamava così) di Marassi, è rimasta identica. Ci sono ancora le panchine dove, nel 1965, scambiava accordi sulla chitarra con gli amici. A sinistra della scuola, non molto distante, una strada che si arrampica su. Salita Franzonina. È lì che prendeva lezioni di pianoforte. La sua insegnante si chiamava Boscaro, aveva 40 anni. Non l'ha più incontrata. Non le ha mai dedicato nessuna canzone. Lewis, al contrario, per il suo maestro di piano scrisse In memoriam.
Proseguendo la salita, la sua casa d'infanzia. A destra della scuola, una casa. La casa. Quella che nella canzone ha mille anni e più di cento bambini, e invece era viceversa. Tipico rovesciamento enigmistico del reale, frequente nella sua poetica.
Davanti alla scuola, in un palazzone verde, al penultimo piano, abitava una ragazza che piaceva a tutti. Ivano ha indicato la finestra, come se quella ragazza ci abitasse ancora. La ragazza suonava il piano. Dalla casa uscivano note. Già allora, soppesando il differente grado di fascinazione che suscitava negli altri una cosa apparentemente identica, suonare il pianoforte, eseguita però da diverse mani, le sue e quelle della ragazza, comprese che il gap emozionale non dipendeva soltanto dalla scarsa avvenenza dei minuetti.
Quel luogo era la loro Penny Lane, estate e inverno. Una zona di grande fermento musicale, più di dieci gruppi rock soltanto a Marassi. Nessuno sfonderà. Ogni tanto incontra qualcuno degli amici di un tempo, in visita nei camerini o per strada.
Si ricorda tutto. Che, poco distante, c'erano i palazzi degli ebrei, catturati dai fascisti per le spiate dei vicini. Che il cinema costava 110 lire, l'autoscontro 50. E si ricorda le macerie della guerra.
Ci andavano a giocare dentro, e se giochi dentro le macerie sei costretto a respirare comunque quel clima. Per questo ha imparato. Non era solo teoria e astrazione. Avevano le case smembrate, alle elementari ti insegnavano a evitare le mine. Ecco perché hanno capito. La memoria storica fu necessaria costrizione della sua generazione.
Eppure non abitava già più a Marassi. A dodici anni, nel 1963, si era trasferito nel quartiere ricco di Carignano. La madre lavorava come sarta al Teatro dell'Opera. La sede, allora, era il Teatro Margherita, non distante dalla nuova casa. In via Fieschi 18, a pochi passi dalla Cattedrale di Carignano. Quella dei funerali di Fabrizio De André.
Poco distante, in via Rivoli, verso il mare, l'abitazione di Oscar Prudente. Quella sarà la sua casa fino al 1983, quando si trasferirà a Leivi. Claudio, il figlio di Ivano, è nato a Carignano, lì ha fatto le elementari.
Per molti anni, Fossati non ha sentito suo quel luogo. A Carignano nessuno suonava, nessuno con cui condividere quella che nel frattempo era diventata passione. Ben più di un minuetto da eseguire a memoria. Si trovò catapultato in un quartiere agiato. Fece un tentativo di fare degli amici, non ci riuscì.
Le sue amicizie erano a Marassi. Le raggiungeva con il filobus, a Carignano dormiva soltanto. Quasi non si accorse di avere cambiato casa. Andò avanti, così, fino a 16 anni. Poi staccò la spina. Fu quando decise di fare sul serio con la musica, quando cominciò a viaggiare per suonare. Lombardia, Piemonte, le crociere con Prudente. Marassi non bastava più.
La musica, in casa sua, era sempre girata. Un cugino era direttore d'orchestra, uno zio clarinettista. La madre gli trasmise la passione per l'opera (non tutta: Puccini sì, Verdi no). Nessuno lo ostacolò. Elementari a Marassi, medie all'Andrea D'Oria, con l'intervallo di un anno in un collegio di preti. Da adolescente era monomaniaco, la musica e basta. Provò due anni il Classico, a metà del terzo smise.
Della sua infanzia ricorda gli esordi da bassista a piazza Ferraris. Poi chitarrista, flauto, il resto. Lestate era spesa tra mare e montagna. A Mornico, tra Pavia e Tortona, e Arquata Scrivia, nel basso Piemonte. Il nonno aveva molti amici.
Il negozio di strumenti era quello di Luigi Gaggero, in Vico delle Scuole Pie. Funzionava anche come sala prove. Lì prese in mano la prima chitarra elettrica, lì comprò il primo piano a coda. C'era una bacheca con gli annunci. C'era sempre un gruppo che cercava un elemento. Rispondeva a ogni inserzione.
Vita durissima, eppure non la percepiva. I nonni e la madre gli permisero di vivere dignitosamente. E di acquisire, per osmosi, consapevolezza sociale delle cose. In casa parlavano di contributi versati. Si abituò ad avere in sottofondo questi discorsi, è cresciuto con un'attenzione molto più sottile per i fatti sociali che non politici. Lo attraggono ancora, le vicende sindacali. (...)
A casa non si poteva parlare dell'ultimo modello della Fiat, nessuno ce l'aveva. Il primo televisore arrivò attorno al 1965. Era piccolo, verde pisello, oggi si direbbe «pastello». Di quelli portatili. Aveva una maniglia per prenderlo e una delle primissime antenne telescopiche che si allungavano. Era così piccolo che lo tenevano in cucina, in sala sarebbe scomparso.
Fu un altro sconvolgimento. Scomparve subito, andò venduto. I relativi alti e meno relativi bassi erano all'ordine del giorno.
Si mettevano sulle sedie di cucina, a gruppi di tre.
Un anno soltanto.
*tratto dal libro «Ivano Fossati, il volatore»
di Andrea Scanzi,
per gentile concessione delleditore Giunti
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