«Maria Zanella», rinasce il monologo del dolore

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Giovanni Antonucci

Il monologo come genere autonomo è la negazione del teatro che nasce, fin dalle sue origini, dal conflitto fra due personaggi. Eppure oggi il monologo dilaga sui nostri palcoscenici per ragioni interpretative e produttive insieme. Utilizzato in quantità industriale dai comici di matrice televisiva, che però fanno solo del cabaret, ha molto fortuna anche fra gli attori di teatro. È un genere, infatti, che esalta il talento ma anche il narcisismo, male endemico di molti teatranti. Il testo viene quasi sempre piegato alle esigenze dell'interprete che così diventa l'unico protagonista dell'evento teatrale. D’altra parte la fortuna del monologo è anche legata alla crisi economica della nostra scena, sempre più minata dai costi troppo alti degli interpreti e degli allestimenti. La Maria Zanella di Sergio Pierattini, in scena al Teatro Argot di Roma e in tournée, è un monologo che rappresenta la vita di una povera donna psicolabile, segnata per sempre dall'alluvione del Polesine del 1951. La sua esistenza è scandita dalla malattia, dal dolore, dall'emarginazione e, alla fine, dall'uccisione della sorella che ha venduto la casa di famiglia, cordone ombelicale di Maria Zanella. È un testo giocato sulla memoria e ben lontano, nel rievocare l'alluvione, dal teatro politico di Marco Paolini. Scritto con mestiere, ha soprattutto la fortuna di avere in Maria Paiato, ben diretta dalla regia di Maurizio Panici, un'interprete di una sensibilità e di una finezza inconsuete nella nostra scena.

La Paiato fa di Maria Zanella un personaggio indimenticabile nei suoi deliri, nelle sue illusioni, nelle sue speranze sempre sconfitte dalla dura realtà. Un'attrice in grado ormai di affrontare i personaggi più ardui del grande repertorio.

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