Milano È finita come era inevitabile che finisse, dal giorno in cui le intercettazioni erano finite sui giornali: Alfonso Marra, presidente della Corte d’appello di Milano, lascia la magistratura e se ne va in pensione, per evitare l’onta di un procedimento disciplinare che lo avrebbe sicuramente spodestato dalla prestigiosa carica. Proprio gli appoggi che chiese per conquistare quella carica sono risultati fatali a Marra: in particolare, il sostegno di Pasquale Lombardi, poi arrestato per l’inchiesta sulla «cricca» ribattezzata dalla stampa la «P3».
«Non sono mai venuto meno ai miei doveri», scrive Marra nella lettera consegnata al Csm da Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che era il suo difensore nel procedimento disciplinare. «Mi sgomenta - aggiunge l’alto magistrato - che colleghi con i quali ho condiviso anni di impegno e ai quali sono legato da reciproca conoscenza possano avere di me l’immagine di una persona disposta a sacrificare la propria libertà e indipendenza per ottenere e mantenere una carica».
I rapporti di Marra con gli indagati della cricca (che parlando tra di loro lo chiamavano confidenzialmente «Fofò») erano apparsi inequivocabili. Ma altrettanto chiaro era che non era stato l’appoggio di Lombardi e degli altri faccendieri a determinare il successo della candidatura del magistrato col riportino nero, approvata a maggioranza dal Csm nonostante da pochi mesi Marra avesse ottenuto la carica di presidente della Corte d’appello di Brescia. E decisivo, nel successo di Marra, era stato il voto del vicepresidente (oggi ex) del Csm Nicola Mancino.
Ma negli ultimi tempi le pressioni su Marra perché si facesse da parte si erano fatte corali. La settimana scorsa, quando l’assemblea milanese dell’Associazione nazionale magistrati aveva votato all’unanimità un documento che chiedeva la sua testa, si era capito che il destino di Marra era segnato.
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