Il matematico che inventò il cervello di Google (senza guadagnarci nulla)

È l’unico italiano chiamato da sir Tim Berners-Lee, inventore di Internet, nel board del consorzio che governa il Web. «Mi disse: “Peccato, non ho un posto da darti. Ma per te lo creo in quest’istante”»

Nel primo mistero gaudioso si contempla il professor Massimo Marchiori che, sua sponte, rinuncia a 10.000 dollari al mese e lascia il Massachusetts institute of technology di Boston, il leggendario Mit da cui sono usciti 76 premi Nobel, e torna in Italia come ricercatore, il gradino più basso della scala gerarchica universitaria, per un decimo dello stipendio, 970 euro. Nel secondo mistero gaudioso si contempla il medesimo docente che, senza ricavarne il becco d’un quattrino, regala a Larry Page, all’epoca studente alla Stanford University, l’algoritmo che l’anno seguente avrebbe consentito al giovanotto americano e a un suo compagno di studi d’origine russa, Sergey Brin, di creare Google, oggi il più potente e il più cliccato motore di ricerca del pianeta, valore di mercato 143 miliardi di dollari. Nel terzo mistero gaudioso si contempla il buon Marchiori aggirarsi felice tra i suoi 180 studenti nel dipartimento di matematica dell’Università di Padova, dove nel frattempo è diventato professore associato a 2.000 euro mensili, e dilettarsi ai fornelli della sua casa di Mestre: «Mi sto specializzando nella faraona con salsa peverada e nell’oca in onto».
Ci sono cervelli in fuga e cervelli di ritorno. Il professor Marchiori, 41 anni, celibe, laureato nel 1993 con 110 e lode in matematica pura e applicata nel medesimo ateneo patavino, sembra appartenere a un’altra categoria: quella di chi ragiona col proprio cervello. Nel suo caso un cervellone, come attesta il dottorato in matematica computazionale e informatica matematica. È nato a Mestre da Orfeo, macchinista delle Ferrovie dello Stato, e da Maria, casalinga: «I medici avevano diagnosticato a mio padre la sclerosi laterale amiotrofica. Ha vissuto per anni da malato aspettando di morire. Alla fine s’è scoperto che invece si trattava d’un problema alla spina dorsale scatenato da un nervo. L’hanno operato e ha ripreso a star bene, ma pochi mesi dopo un tumore ai polmoni se l’è portato via. Questo mi ha fatto capire quanto sia meraviglioso vivere e ha rimesso ordine nelle mie priorità». La sorella maggiore, Elena, non è da meno: specializzata in algoritmi generici, lavora in Olanda e si dedica alla bioinformatica applicata alla medicina.
Il giovanotto nel 1997 si trovava anch’egli nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, con un contratto da docente presso il Centrum wiskunde & informatica, il corrispettivo del nostro Consiglio nazionale delle ricerche. Ricevette un’offerta dal Mit e si trasferì negli Stati Uniti. Il compito assegnatogli a Boston non era dei più facili: «Come possiamo essere sicuri che i microprocessori non sbaglino a fare i conti? Partendo dalla logica matematica, ho cominciato a indagare». Sulla faccia del pianeta gli scienziati impegnati in una simile impresa non erano più di quattro o cinque. Il risultato della ricerca non fu affatto tranquillizzante: «Scoprii che anche i microprocessori, e dunque i computer, sbagliano». Bastò per metterlo in luce e procurargli un passaggio dal secondo al terzo piano del Mit, quello dove regna sir Tim Berners-Lee, l’informatico britannico che insieme al belga Robert Cailliau ha inventato il Www, il World wide web, la Grande ragnatela mondiale, Internet insomma. «Volle che gli spiegassi le mie idee. Alla fine concluse: “Molto interessanti. Peccato che nel mio team non ci siano posti liberi, altrimenti ti prenderei subito a lavorare con me”. Fece una breve pausa, poi batté un pugno sul tavolo: “Però in questo istante ho creato un posto appositamente per te. Benvenuto”. Era l’antivigilia di Natale, io avevo compiuto 28 anni da un mese esatto e quel pomeriggio decollava l’aereo che mi avrebbe riportato in famiglia per le festività. Fu il più bel Natale della mia vita».
Il resto, per il figlio del ferroviere, è venuto di conseguenza. Autore del P3P, lo standard mondiale per la privacy del Web, finora è l’unico italiano che sia stato ammesso nel board (una quindicina di persone in tutto) del W3C, il World wide web consortium diretto da Berners-Lee, comunità internazionale che riunisce i colossi dell’informatica e delle telecomunicazioni, da Apple a Microsoft, da Ibm a Sony, e definisce gli standard di sviluppo per Internet. È anche chief technology officer di Atomium Culture, l’organismo europeo presieduto da Valéry Giscard d’Estaing che coinvolge 25 università, oltre 100.000 ricercatori, un milione di studenti, 17 quotidiani di qualità fra cui Le Monde, Frankfurter Allgemeine Zeitung e The Independent, e un gruppo di importanti aziende che insieme fatturano 720 miliardi di euro l’anno. Mentre insegna all’Università di Padova, continua a lavorare per il Mit. In particolare sta studiando il Web 3.0, il cosiddetto Web intelligente. Ma ha rinunciato allo stipendio americano: «Non mi pareva etico accettarlo. Mi sono tolto dal payroll, il libro paga, e attualmente sono visiting scientist».
Neanche una cattedra da professore ordinario, è riuscito a rimediare in Italia.
«Scappai all’estero dopo essere stato bocciato due volte come ricercatore e una volta come associato. Non c’era un concorso dove riuscissi a spuntarla. Ho visto passarmi davanti figli di ex rettori, nipoti di baroni, raccomandati di ferro».
Adesso che è tornato le avranno almeno messo a disposizione un po’ di fondi per le sue ricerche.
«Come no: 1.200 euro l’anno».
Non è possibile.
«Vede, i fondi statali sono pochi e quei pochi vengono sparsi a pioggia per non scontentare nessuno. Quindi non c’è alcuna differenza fra chi lavora e chi non lavora, fra chi produce risultati e chi non pubblica da anni una ricerca. In una parola manca la meritocrazia. Al rientro in Italia sono stato fino al 2006 ricercatore all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dov’ero salito a 1.100 euro mensili unicamente per effetto degli scatti d’anzianità».
Ma allora perché è tornato in Italia?
«Perché questa è casa mia. Ho pensato che negli Stati Uniti i livelli tecnologici sono già elevatissimi. E ho concluso che dovevo rimboccarmi le maniche qui».
A 2.000 euro al mese.
«Li percepisco solo da tre anni. Mi rendo conto che la metrica corrente è imperniata sul denaro, ma io ho sempre pensato che nella vita le soddisfazioni non ti vengono dai soldi. Escludo che Michelangelo abbia affrescato la Cappella Sistina solo perché la commessa di Papa Giulio II gli dovette sembrare molto remunerativa. Si lavora per lasciare qualcosa di bello al mondo».
Non s’è mangiato le mani dopo che Larry Page le ha fregato l’algoritmo di Google?
«Per nulla. Sono contento che abbia ottenuto i fondi per realizzare la mia intuizione. Io non ci sarei mai riuscito, mentre lui aveva alle spalle la Stanford University, dove c’è un comitato di selezione che, se ti viene un’idea buona, ti dà i soldi a fondo perduto per concretizzarla. Il mito dei progetti americani nati in garage non esiste. Solo la Apple è nata davvero in un garage. Ma Google è figlio della ricca Stanford».
E la sua idea dov’è nata?
«Qui a Padova nel 1995. Allora per le ricerche in Internet tutti usavano Altavista, che però aveva il difetto di fermarsi al contenuto delle singole pagine. Esempio: digitavi platypus, che in inglese significa ornitorinco, e nei primi dieci risultati ti veniva fuori l’hotel Platypus ma non la definizione di ornitorinco come animale. Io ho costruito un motore di ricerca, Hyper search, che invece tenesse conto anche dei collegamenti fra le pagine».
E Page in che modo s’è impossessato del suo algoritmo?
«Gliel’ho dato io. Nel 1997 presentai l’Hyper search alla sesta Conferenza mondiale del Web a Santa Clara, in California. Page era uno studente di appena 23 anni e mi tampinò per i successivi quattro giorni, chiedendomi un sacco di spiegazioni sul mio motore di ricerca. Fui ben felice di fornirgliele».
Ma Page e Brin hanno poi riconosciuto questa primogenitura?
«Certo: alla settima Conferenza mondiale del Web che si svolse nel 1998 a Brisbane, in Australia. Ero presente anch’io. Qualche mese dopo fondarono l’azienda Google».
Non le hanno mai chiesto di lavorare con loro?
«Ogni anno. L’ultima offerta era per il laboratorio europeo di Google che ha sede in Svizzera, a Zurigo».
A quali condizioni?
«Circa 10.000 euro al mese, più parecchi bonus in base ai risultati conseguiti. Analoghe proposte mi giungono periodicamente anche da Microsoft e Ibm».
So che lei, però, oggi è assai critico sulla deriva commerciale di Google.
«Come tutti i motori di ricerca, non è obiettivo e non soggiace ad alcun controllo. È una scatola nera: ti devi fidare di quello che trovi dentro. Google ha ammesso in tribunale che molte classifiche sono fatte a mano. Inoltre opera solo su un quarto, forse meno, dei siti effettivamente presenti sul Web».
E come fa a escludere gli altri tre quarti?
«Non è colpa di Google. Dipende da come s’è evoluto Internet. Vi sono pagine della Rete irraggiungibili per motivi tecnici: la ricerca richiederebbe mesi anziché frazioni di secondo. Perciò Google decide di testa propria quali filtrare e quali no. Ma chi giudica sull’imparzialità delle esclusioni? Oggi il Web comprende 60-70 miliardi di pagine, c’è chi dice addirittura 100. Google ne indicizza solo 15 miliardi».
Vi sono motori di ricerca migliori, più imparziali ed esaustivi di Google?
«No. Sono googledipendente anch’io».
Altra grave accusa che lei muove a Google: vende le tracce delle nostre navigazioni alle aziende che a loro volta vogliono venderci qualcosa.
«Page e Brin si sono comprati Doubleclick, il colosso della pubblicità sul Web, che con i suoi programmi-spia è in grado di monitorare come navighiamo di sito in sito. Quindi ciascun clic va a ingrossare il dossier che raccolgono sul nostro conto. La Commissione europea ha ordinato che ogni sei mesi questa raccolta d’informazioni sia distrutta. Ma la norma è facilmente aggirabile. Almeno fino al 2038, quando un bug informatico sul cambio di data, simile a quello del terzo millennio, farà saltare il tracciamento».
Google Health archivia anche le nostre cartelle cliniche, con l’edificante pretesto di renderle consultabili online dai medici nel caso venissimo colti da qualche accidente in giro per il mondo.
«Ma quello almeno avviene su base volontaria. Pensi invece agli utenti di Gmail, il servizio di posta elettronica, vittime inconsapevoli dei server di Google che leggono tutti i loro messaggi. Le intercettazioni telefoniche, al confronto, sono robetta da dilettanti. Qui non serve manco il pubblico ministero che le autorizzi. Si fanno in automatico».
Comincio a capire perché è tornato all’Università di Padova a insegnare tecnologia web anziché matematica.
«Internet è un mondo giovane che ricorda l’epopea dei pionieri americani: esaltante ma senza regole. La Rete è ancora nella fase Far West».
Lei ha dichiarato: «Un domani parleremo col computer come se fosse un piccolo essere umano». Non le fa un po’ paura un mondo così?
«No. Dico di più: è vicino il giorno in cui il pc sarà capace d’interagire con noi. Invece oggi siamo costretti a rivolgere una domanda a Google e a prendere quello che offre come se fosse il responso dell’oracolo di Delfi».
E agli anziani, a chi non ha il computer o il cavo a fibra ottica che arriva nei campi, chi ci pensa?
«È triste dirlo, ma si tratta di una parte dell’umanità in via d’estinzione. Dobbiamo allora chiederci: Internet è come l’acqua?».
Risponda.
«Sì, è un diritto fondamentale. Ieri l’unico cibo era quello materiale. Oggi gli uomini avranno sempre più bisogno di un cibo spirituale che si chiama informazione, senza la quale non puoi vivere. Internet è l’acqua del terzo millennio».
Se d’improvviso la Rete collassasse, che accadrebbe?
«Il disastro dei mondi. Crollerebbe tutto: trasporti, transazioni finanziarie, comunicazioni, aziende. Si crede che Internet, per le sue dimensioni, sia un pachiderma indistruttibile. È l’esatto contrario: all’elefante basta sfiorare la proboscide per renderlo mansueto. Chi conosce i punti di vulnerabilità, può buttar giù l’intera Rete».
Il generale Keith Alexander, direttore della National security agency statunitense, sostiene che entro un anno, al massimo tre, l’Occidente deve prepararsi alla prima cyberguerra, con un blackout elettrico e finanziario di almeno 60 giorni.
«La rete elettrica è controllata da Internet. Già adesso, in questo preciso istante, ci sono migliaia di hacker che tentano di abbattere il sistema attraverso il Web. Ci provano ogni giorno, si divertono così. Insegno sicurezza delle reti, quindi so di che parlo».
Lei sostiene che siamo pigri e per questo progettiamo macchine sempre più veloci e pensanti che lavorino al posto nostro. Non teme che un giorno possano avere il sopravvento sugli uomini?
«Nei prossimi 50 anni no. Per il futuro non ci giurerei. Era il 2003 quando Thomas Friedman sul New York Times pose il provocatorio interrogativo, sotto forma di equazione, sullo sviluppo della Rete wireless: “Google + Wi-Fi = God?”, cioè Dio. Ma io ritengo che il maggior pericolo, anche fra un secolo, sarà sempre rappresentato più dall’uomo che dalla macchina».
Chi è un matematico?
«Una persona che studia il pensiero per come è veramente, anziché per come potrebbe essere. Questo secondo compito lo lasciamo ai filosofi».
I numeri possono spiegare ogni cosa?
«Spero che non esista nessun mio collega così pazzo da crederlo.

Benché nella complessità di tutti i sistemi biologici alla fine si rintracci sempre la matematica, i numeri possono solo aiutarti a capire il mondo».
Più importanti i numeri o le lettere?
«I numeri parlano alla mente, le lettere al cuore. E senza il cuore non vai da nessuna parte».
(539. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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