Controcultura

La "materia alternativa" è una lezione... per tutti

"La materia alternativa" (Mondadori) è il romanzo d’esordio di Laura Marzi. Nata ad Aosta nel 1981, l’autrice è stata, come la protagonista del suo libro, una insegnante precaria

La "materia alternativa" è una lezione... per tutti

A fine anno non si assegna il voto, il giorno del ricevimento dei genitori non si presenta mai nessuno e il preside non mette a disposizione nemmeno un'aula, per cui le lezioni si tengono nella sala della mensa dismessa: è La materia alternativa (Mondadori); alternativa, beninteso, alla religione cattolica. Frequentata di solito da musulmani o da immigrati di prima e seconda generazione, ma non solo da essi, nel romanzo di Laura Marzi è tenuta da una giovane e appassionata insegnante settentrionale con qualche catastrofe alle spalle la sorella eroinomane ha ridotto la famiglia sul lastrico scesa a Roma dopo aver rinunciato all'elemosina di un contrattino all'università, di quelli che non bastano nemmeno a comprare le sigarette. Sessualmente intraprendente, se non sfacciata, eppure incapace di stabilire relazioni con gli uomini che durino più di un mese per insofferenza e paura dei legami stabili, la professoressa nell'orario di lavoro deve affrontare un uditorio ostile. La sordità, anzi la radicale estraneità dei ragazzi al modello occidentale fatto di diritti ed emancipazione, rispetto della diversità e tolleranza è ad un tempo disarmante, esasperante e totale. Gli adolescenti cantano senza avvertire il minimo senso di colpa i testi dei trapper che inneggiano all'uso di droghe più o meno pesanti, reagiscono alle sollecitazioni del corpo docente con arroganza e giustificano istintivamente sia la violenza, sia la vigliaccheria: «Ma eravate in tre contro di lui, si vedeva incalza Kaddour. Allora Gioele mi racconta che quell'uomo era vecchio, circa trent'anni, ha insultato un suo amico, che deliberatamente non lo lasciava parcheggiare, e per questo lo hanno aggredito». La cosa più spaventosa, e di certo l'aberrazione che l'insegnante tiene di più a denunciare, è la naturalezza con cui le ragazze fanno proprio il maschilismo dei compagni: «Le guardo mentre ripetono queste e altre espressioni sessiste, e potrei giurare su mia madre che non si rendono conto, in nessun modo, che quelle parole le riguardano. Chiedo a Chiara, occhi truccati con grazia, denti perfetti, se non pensa mai che quelle frasi che dipingono le ragazze come degli sfoghi sessuali siano un problema anche per lei, che la riguardino. Lei non sa che quel piacere che prova nel cantare anche le frasi più maschiliste deriva dal suo identificarsi con il cantante, dal mettersi dalla parte del nemico».

Il problema, dunque, è sempre lo stesso: come si fa a difendere la società e a renderla migliore? Va da sé che l'insegnante è convinta della rilevanza della sua missione: «Se solo vi rimanesse una goccia di ciò che provo a insegnarvi sul sessismo, sul classismo, sul razzismo, avrei fatto qualcosa di utile». E in che modo versare questa goccia, se non attraverso il vecchio metodo socratico del dialogo? Parlando si riesce a far emergere le contraddizioni latenti, a mostrare il lato opaco di pensieri apparentemente limpidi, a stigmatizzare le conseguenze impossibili di pratiche considerate, a torto, legittime.

Il che non toglie che, nonostante tutta la buona volontà, discutere con gli studenti dell'ora alternativa equivalga a impantanarsi in una palude mentale in fondo alla quale brilla una constatazione: quella che oggi sembra la materia più obbligatoria di tutte, la materia che fa e disfa le carriere eccellenti di mezzo mondo, vale a dire l'impero del politicamente corretto o anche solo della civile correttezza, in realtà è l'appannaggio di ristretti gruppi cittadini, a volte più confusi dei loro riluttanti interlocutori.

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