Prova a parlare di maternità al direttore di un’azienda. Si metterà le mani nei capelli. Per lui una donna incinta significa problemi, malumori, assenze prolungate e costi, tanti costi. Ma è davvero così? Solo in parte. La realtà è più complessa e, per molti versi, paradossale.
Sgomberiamo il campo da un equivoco: come hanno dimostrato due ricercatrici della Bocconi, Simona Cuomo e Adele Mapelli, nel saggio, Maternità quanto ci costi? (Guerini e associati editore), le spese che le imprese devono sostenere quando una dipendente va in congedo sono molto basse, appena lo 0,23% del totale dei costi annuali di gestione del personale.
E allora chi paga? L’Inps, naturalmente, che copre sia il congedo obbligatorio di cinque mesi, con un’indennità pari all’80% dello stipendio, sia per quello facoltativo, che può durare altri sei mesi con un compenso ridotto al 30%.
Discorso chiuso. Anzi, no. Quello 0,23% corrisponde a un esborso per ogni maternità pari a 23mila euro. Mica pochi, soprattutto se a sostenerli è un’azienda di piccole dimensioni. Quei 23mila euro servono a risolvere principalmente problemi organizzativi: bisogna trovare e retribuire i sostituti, riorganizzare il lavoro interno e gestire l’imponderabile ovvero le improvvise assenze delle madri per accudire i figli.
Colpa del nostro Stato sociale, troppo generoso con i dipendenti rispetto al resto d’Europa, sostengono diversi imprenditori. Vero o falso? Vero. Nel Vecchio continente solo la Norvegia, l’Austria e l’Olanda garantiscono condizioni economiche migliori delle nostre. Ed è provato che le italiane tendono a utilizzare il congedo parentale più a lungo rispetto alla media europea. Inoltre, durante il congedo maternità, il dipendente matura lo stesso le ferie. Dunque capita che al rientro dopo undici mesi, la neomamma vada in ferie per un altro mese. Per la rabbia, comprensibilissima, dei responsabili dell’azienda.
Nel resto d’Europa, però, la ripartizione dei compiti è più equilibrata tra mogli e mariti. Da noi pochissimi uomini chiedono il congedo parentale, all’estero invece è una consuetudine sempre più diffusa. E allora il quadro risulta più sfumato. Le donne italiane si assentano di più rispetto alla media europea, anche perché i loro mariti non sono propensi a concedersi una pausa extra per vivere appieno la loro funzione paterna. E le loro assenze per allattamento o malattie dei figli o problemi scolastici sono aggravate da uno Stato sociale che è generoso sulla durata dei congedi, ma ottuso nell’assistenza alle donne che lavorano. Pochi asili nido, servizi doposcuola limitati, trasporti casa-scuola sempre a carico della famiglia, assenza di trasporti pubblici dedicati. Rigidità che la cultura aziendale italiana certo non contribuisce a risolvere. All’estero si ricorre molto più frequentemente al tempo parziale, al lavoro da casa, agli orari flessibili, che invece sono sovente tabù dalle nostre parti.
Risultato: molte donne alla lunga non riescono a conciliare carriera e maternità, il che conduce grande spreco di talenti e di risorse. Oggi escono dalle università italiane più laureate che laureati, con punte nelle facoltà economiche e in quelle giuridiche. Eppure nel nostro Paese ben il 25% delle «dottoresse» decide, o è costretta, a non lavorare. Uno spreco, che emerge anche da un’altra statistica.
Nonostante la generosità dei congedi per maternità, oggi lavora solo il 47% delle italiane tra i 15 e i 64 anni, il tasso più basso d’Europa; inferiore addirittura a quello della Grecia. Eppure, secondo Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica all’Università degli Studi di Milano, e autore del saggio Il fattore D (Mondadori), se la percentuale salisse al 60%, il Pil aumenterebbe del 9,2% a produttività invariata. Una cifra enorme, in grado di ridare slancio alla nostra economia e di ridurre sensibilmente il debito pubblico.
Già, il debito. Nota dolentissima. I costi dei congedi sono a carico dell’Inps, ma l’Inps dispone delle risorse finanziarie per coprirli? La risposta è no.
Nel 2009 le trattenute in busta paga hanno generato un gettito di circa un miliardo di euro. Ma la spesa complessiva è stata di 2,994 miliardi. Insomma, c’è un buco. Le spese per la maternità rientrano nella Gestione prestazioni temporanee, che è complessivamente in attivo, con l’eccezione della voce maternità, che, invece, è in passivo di 1,127 miliardi. Eppure, nemmeno includendo questo disavanzo, si arriva a 2,994 miliardi. Mancano 788 milioni, che spettano, naturalmente, allo Stato, il quale per legge è tenuto a ripianare il disavanzo. E così anche la maternità contribuisce all’aumento del debito, seppur con cifre assolute non certo da capogiro.
Confrontando il numero di persone che hanno beneficiato dei congedi di legge e l’evoluzione della spesa emergono altre singolarità. Ad esempio, nel 2007 circa 282mila donne ricorsero alla maternità obbligatoria, nel 2009 sono state quasi 63mila in più. E lo stesso è avvenuto con i congedi parentali che in due anni sono aumentati da 208mila a 234.507. Eppure la spesa complessiva non è cresciuta in proporzione. Era di 2,819 miliardi nel 2007 ed è risultata di 2,994 nel 2009. È verosimile che siano aumentate le maternità di lavoratrici a basso reddito rispetto a quelle più benestanti oppure che siano diminuiti i periodi di assenza dal lavoro. Un paradosso che nemmeno l’Inps è in grado di spiegare.
Riassumendo: lo Stato sociale è generoso, ma non contribuisce a risolvere i problemi. Le aziende sono insoddisfatte, le lavoratrici anche. E alla fine chi paga è la collettività.
http://blog.ilgiornale.it/foa
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.