Cultura e Spettacoli

La maternità selvaggia delle femministe eretiche

La maternità selvaggia delle femministe eretiche

Nel giorno in cui si santifica con inutili festeggiamenti l’8 marzo, giornata sprecata per ricordare (semel in anno licet insanire) la Donna con la d maiuscola, ci piace invece parlare di donne con la d minuscola, quelle che combattono con i problemi quotidiani gli altri 364 giorni dell’anno.
Sono le donne che prendono vita in due libri appena usciti. Uno è di Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, femministe storiche autrici di un bel pamphlet dal titolo provocatorio Madri selvagge, manifesto di amore per la vita e «contro la tecnorapina del corpo femminile» (Einaudi, pagg. 184, euro 11,50). L’altro è di Ritanna Armeni, La colpa delle donne (Ponte alle Grazie, pagg. 200, euro 12), un’inchiesta giornalistica sulla legge 194 a venticinque anni dal referendum sull’aborto.
Le tre sono tutte di sinistra e affrontano da punti di vista diversi lo stesso tema: la procreazione, riproposto con forza dalla recente legge sulla fecondazione assistita, dal referendum su quella legge e dallo scontro riapertosi sull’aborto. Ritanna Armeni, editorialista di Liberazione, si muove dentro i binari più classici e scontati di difesa della 194 contro gli attacchi di quello che definisce il «Nuovo Movimento per la vita», dove laici e atei devoti si sono schierati a fianco del cardinale Ruini e dei cattolici nella difesa comune dei Valori forti e delle Verità assolute.
Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, pur dichiaratamente laiche e di sinistra, sono state un caso anomalo di «femministe astensioniste»: durante la campagna referendaria per la legge sulle provette le due si sono «con sgomento e sconcerto» trovate dalla stessa parte «dei preti». E questa loro posizione è quella che ci interessa di più. Perché il loro saggio è stato subito bollato come un manifesto del femminismo «eretico». Se due femministe, laiche e di sinistra, si ritrovano contro le provette sulle stesse barricate «dei preti», gli stessi che nelle campagne sull’aborto erano i loro acerrimi nemici, qualcosa di strano c’è nell’aria. Cosa?
Il punto è proprio questo: Di Pietro e Tavella sono davvero due femministe eretiche? Il loro libro è un mea culpa del femminismo? Oppure esiste un femminismo diverso, che non necessariamente si identifica con le battaglie dell’emancipazione prepotente degli anni Settanta, con l’aggressività, l’intolleranza e l’assolutismo che esso ha rappresentato? La femminista incazzata, dell’utero è mio e me lo gestisco io, sembra andata in soffitta insieme alle ideologie e a tutti gli armamentari con i quali siamo soliti schematizzare e catalogare i fatti politici e la storia.
Il pamphlet, godibilissimo per le parti autobiografiche dove le due amiche parlano in cucina davanti a una tazza di caffè dopo una seduta di meditazione yoga, ha il passo delle sedute di autocoscienza che sono nella tradizione del movimento femminista. E proprio a quella tradizione le due si rifanno.
Da lì deriva l’odio per qualsiasi manipolazione sul corpo delle donne, la diffidenza per le biotecnologie, la denuncia dello scippo della maternità perpetuato dalle tecnoscienze, la brutalità della stimolazione ovarica, i rischi insiti nella mercificazione degli ovociti mascherata dietro un ossimoro come «donazione dietro compenso». Le due «no global della provetta» sono naturaliste, ambientaliste, contro gli ogm, contro i pesticidi, contro lo scientismo cieco e assoluto. Per loro l’inquinamento, i farmaci, quello che mangiamo, quello che beviamo sono alla base dell’aumento dell’infertilità che colpisce il mondo moderno.
Quindi, si rassicurino le due ragazze terribili: nella crisi di coscienza che ha portato Paola Tavella a perdere «le amiche del quorum» e Alessandra Di Pietro a dimettersi (per assoluta divergenza d’idee) dall’incarico di consulente per la comunicazione di Barbara Pollastrini, responsabile nazionale dell’area femminile dei Ds, il loro incontro con Ruini è solo incidentale. Infatti scrivono: «Se l’embrione deve essere di qualcuno che sia delle donne». Niente di più lontano dalla posizione della Chiesa per cui l’embrione appartiene solo a Dio. Le due, tra l’altro, che hanno entrambe abortito e hanno poi entrambe avuto due figli, sono contro «il pregiudizio sociale che si debba far un figlio per essere donne vere». Invece è proprio la Chiesa a dare un valore alla donna soprattutto se è madre. Per di più sono assolute sostenitrici della legge sull’aborto e favorevoli alle coppie aperte di tutti i tipi. Quindi, chiarito il loro rapporto con le tesi teo-con e chiuso il capitolo della scontro tra laici e cattolici, che continua ad appestare la politica italiana ma dal quale non si può prescindere, il discorso aperto dalle due ragazze terribili è interessante sotto molti altri punti di vista, soprattutto per le donne di una generazione successiva a quella delle «dure e pure». Noi, che le battaglie dell’emancipazione femminista le abbiamo lette sui libri e non le abbiamo vissute in prima persona, scopriamo che molto di ciò che pensavamo del femminismo è sbagliato. O superato? O falso?
Ci avevano fatto credere che era colpa delle donne, della libertà femminile conquistata grazie alla contraccezione, alla voglia di fare carriera, alla bieca ambizione se la maternità è in crisi e la natalità è in calo. Scopriamo invece che non sono queste le cause principali. Che bisogna andare a cercare le colpe maschili nell’infertilità: nella maggioranza dei casi sono gli uomini ad avere problemi. Scopriamo anche che l’orologio biologico è una grandissima balla. Che se le donne decidono di rivolgersi a un medico per la fecondazione assistita, la maggior parte dei casi è per colpa dell’uomo: perché non adottare, invece di sottoporsi al calvario della provetta? «Perché mio marito non vuole». Il legame di sangue, la paternità, la negazione della sessualità, tutte cose che interessano più agli uomini che alle donne, perché l’amore femminile è diverso e va oltre questi aspetti «tecnici».
Pensavamo di dover ringraziare le lotte femministe per molte conquiste che ci hanno liberato dalla schiavitù del corpo. Tipo le gravidanze a dieta controllata: non ingrassare più di nove chili per tornare subito come prima, dove «tornare come prima significa magra, con la pancia piatta, il seno alto e sodo, come se niente fosse accaduto». Pensavamo di dover ringraziare l’emancipazione degli anni Cinquanta e Sessanta per il latte artificiale, «prezioso strumento di liberazione della schiavitù di essere l’unica nutrice».
Pensavamo che chi allattava al seno fosse giustamente accusata di essere «primitiva, antimoderna e persino nemica della libertà femminile». Pensavamo anche che l’epidurale, l’amniocentesi, il parto cesareo fossero delle conquiste di libertà e di autodeterminazione e invece scopriamo che l’eccesso di medicalizzazione alla quale vengono sottoposte le donne in gravidanza non sempre viene fatto in loro favore, ma spesso per evitare conseguenze legali ai medici.
Noi della nostra generazione, per la verità molte cose le avevamo intuite. E siamo ingrassate molti chili più del consentito, abbiamo allattato, abbiamo rifiutato perfino le flebo durante il parto, abbiamo mandato al diavolo medici che volevano farci fare esami e controesami con lo spettro del figlio sano. Visti i precedenti, non abbiamo neppure cercato di inseguire il modello delle superdonne che vogliono tutto: l’uomo, la palestra, il parrucchiere, il figlio, la carriera, i viaggi e la vita sociale. Già riuscire a lavorare e crescere dei figli che non diventino dei delinquenti ci pare una grande conquista. Noi avevamo capito che c’era qualcosa di sbagliato e ci domandavamo se eravamo noi sbagliate o se veramente erano grandi conquiste quelle che avevamo ereditato. Finalmente ci rincuora leggere frasi del genere scritte da due femministe: «È difficile e imbarazzante da dire, i figli arrivano quando pare a loro e non quando fa comodo a noi». Oppure: «Pretendere di comandare al proprio corpo può avere un effetto sterilizzante, la carne non si adatta». E anche: «Ci hanno imposto di dover scegliere la maternità», mentre invece la maternità fa parte della vita di una donna, fa parte del rischio della vita, come il rischio di avere un figlio che ti nasce rincitrullito e che per quanti esami diagnostici puoi fare non avrai mai la certezza che ti venga sano.
Eccola la vera libertà. Questa sì che ci piace.

Ma allora? Tutto l’armamentario ideologico dell’emancipazione dov’è finito? Non lo sanno Di Pietro e Tavella che un’intera generazione di donne «liberate» hanno rinunciato alla maternità nel nome del femminismo? Quanto hanno pagato le donne il prezzo della loro emancipazione? Sono forse andate troppo in là?
Se invece il femminismo è quello che predicano le due ragazze terribili, allora tutte le donne dovrebbero definirsi femministe.

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