di Francesco Berti Riboli
Dopo un viaggio scomodissimo su una pista dissestata arriviamo a Nouna e ci dirigiamo immediatamente all'ospedale. Nouna è una cittadina di circa 15000 abitanti nel nord del Burkina Faso ed arrivo fin qui per accompagnare un mio collega oculista con il quale spesso collaboro. Si chiama Paolo, un modenese cinquantenne, piccoletto, rotondetto e pieno di esuberante vitalità.
L'ospedale in cui arriviamo assomiglia a molti altri già visti. Lo spazio non manca: tutte le costruzioni sono ad un piano e distanti una cinquantina di metri l'una dall'altra. Ogni costruzione ospita un reparto; la grandezza e l'importanza dell'ospedale si possono valutare a colpo d'occhio sulla base del numero di padiglioni e dell'estensione del territorio occupato. A delimitare il perimetro, solitamente, un muretto alto un paio di metri o un semplice filo spinato. Stradine lastricate di pietra collegano i padiglioni disposti su un terreno arido e polveroso, inframmezzato da spiazzi erbosi e qualche aiuola fiorita. Certamente tra un ospedale e l'altro vi possono essere significative differenze, a seconda del clima o dell'impegno del personale nell'ingentilire il luogo: qui si vedono belle piante e molti fiori, ma non sempre la bellezza del posto rispecchia la migliore efficienza o la migliore dotazione strumentale dell'ospedale.
Appena arrivati entriamo in quella che supponiamo essere l' accettazione ma non troviamo nessuno e cosi andiamo in vari reparti in cerca di un medico o un infermiere. Un uomo di mezza età, probabilmente un paziente, risponde alle nostre domande in un discreto francese e ci conduce in una stanza accanto al blocco chirurgico, dove si trovano gli unici due infermieri che lavorano qui.
Sono impegnati nel curare un giovane che appare estremamente grave, semicosciente e con numerose ferite sanguinanti, ematomi nel tronco e agli arti. Si chiama Filibert ed è l'autista dell'ospedale: ogni giorno fa la spola con i villaggi vicini per trasportare cose e persone. E' caduto rovinosamente con la moto poche ore prima, ed il nostro arrivo è considerato dagli infermieri presenti una grande fortuna perché nell'ospedale non vi è nessun medico: il direttore sanitario è fuori città e tornerà domani.
Inizia per me a questo punto un'avventura professionale ed umana veramente impegnativa: non posso lasciare morire un ragazzo senza fare nulla, d'altra parte qui non c'è sala operatoria né strumentazione adeguata e l'ospedale più vicino è a più di 100 km di distanza. L'unico che ci potrà dare un qualche aiuto è il laboratorista: se riusciremo a trovarlo potremo valutare l'emocromo per quantificare la gravità delle emorragie esterne e di eventuali emorragie interne.
Nel frattempo Filibert continua a peggiorare con un polso sempre più debole e la pressione sempre più bassa. I segni evidenti del trauma, anche sulla parte superiore dell'addome, fanno temere una rottura della milza e quindi una lesione che può causare la morte in poche ore se non si interviene chirurgicamente. Ma non vi è nessuno strumento per accertarsene né eventualmente per operare.
Tentiamo di aiutarlo somministrandogli alcune flebo con i farmaci più adeguati tra i pochi a disposizione e gli suturo le ferite esterne per diminuire la perdita di sangue. Gli esami effettuati dal laboratorista, sopraggiunto a tarda sera, confermano la presenza di emorragia in atto, ma non aggiungono nulla a ciò che sapevo.
Filibert, passa a stento la notte, sembrando in più occasioni vicino alla morte; il mattino seguente però inizia a migliorare e, nel primo pomeriggio, come svegliandosi da un brutto sogno, si rivolge a me con uno dei più bei sorrisi che io abbia mai ricevuto.
Alla sera di quel giorno devo ripartire verso il Togo: lascio Filibert ulteriormente migliorato e lo affido al direttore sanitario finalmente rientrato.
Dopo circa un mese, ritornando all'ospedale di Nouna, ritrovo Filibert: è venuto a salutarmi, felice e pieno di gratitudine sincera e profonda nei miei confronti. Mi presenta la sua fidanzata, una bella ragazza di una ventina d'anni che mi pare di conoscere. Dopo poco mi ricordo: l'avevo vista numerose volte quella famosa notte in cui Filibert combatteva tra la vita e la morte; era sempre ferma in fondo al corridoio su cui si affacciava la stanza dove Filibert era ricoverato. Non era mai venuta vicino, non aveva mai chiesto niente, aveva solo osservato a distanza probabilmente immobile nella sua disperata trepidazione.
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