Che cosa, più di tutto il resto, «fa Capodanno?». Lo sapete: il concerto da Vienna, con i valzer di Strauss. Che poi sono valzer e anche polke e marce: non c'è forse il finale con la Marcia Radetzky in cui una volta sì e una no tutti battono a ritmo le mani? Ma è il valzer, che trionfa: quel volubile, irrazionale ritmo in tre che lascia volteggiare e indugiare, a nulla funzionale, a nulla utile, se non a portarci via nella vertigine della leggerezza. E poi non sono neanche veramente «di» Strauss, ma «degli» Strauss, che era tutta una famiglia, d'altri compositori attorno, geniali o solamente bravissimi, ma che si erano contagiosamente passati il segreto di una musica che rievoca a chi c'è stato, e a chi non c'è stato fa inventare, caffè e strade all'antica, sapore di buon vino leggero, dialetto rapido, storie intime e segrete, la Vienna autentica di sempre e la nostalgia della Vienna che esisteva ieri, un ieri che non ci fu mai.
Il Concerto si celebra nella casa della musica, la stupenda sala dorata del Musikverein, dove i posti sono esauriti da mesi e mesi, e vive della bellezza paradisiaca dei Wiener Philharmoniker, l'orchestra che sa coniugare esattezza e libertà nella festa del suono. I più grandi direttori sono chiamati a dirigerla, e del caro, allegro evento di Capodanno, che chiede non tanto di sapersi districare dalle difficoltà di ardue partiture, quanto trasmettere civiltà e fantasia, fanno una specie di fiore all'occhiello. Quest'anno c'era sul podio Zubin Mehta, indiano occidentalizzato, di intelligenza vivida e di gesto flessuoso e infallibile, di cui i professori d'orchestra dicono che è difficile anche volendolo andare fuori tempo. E il concerto è stata una lezione di buona musica e un lungo momento godibilissimo.
Per proposito e rito, tutto doveva restare uguale a sempre; ma se un segno l'ha distinto questa volta è forse stato il gioco d'esibire il virtuosismo dell'orchestra, lanciata in velocità vorticose e chiamata a planare improvvisa in mutamenti di tempo, con il culmine della gag in cui le prime parti si lanciavano ciascuna in variazioni di fulmineo effetto come all'insaputa del direttore che cercava invano di impedirlo. E per televisione, erano uguali o quasi a sempre gli addobbi con i mucchioni eleganti all'austriaca dei fiori mandati da Sanremo, e le danze ogni tanto dal castello di Schonbrunn dove il coreografo fa compiere ai ballerini i passi e i movimenti come li immaginerebbe, fosse capace, ciascuno di noi.
Il concerto riunisce mezzo mondo, che respira tutt'insieme il bel sogno di pace e d'armonia; ma non l'Italia dove i dirigenti della Rai, che in tutti questi decenni non devono aver capito bene la differenza tecnica, psicologica e morale fra ripresa diretta e registrata, lo mandano in onda poco dopo, alle due. E in questo modo fan passare in ripresa diretta un concerto di brani ed arie d'opera dal Teatro della Fenice in Venezia, che ha il carattere normale di uno di quei «Concerti Martini e Rossi» che la radio italiana trasmetteva una volta ogni lunedi sera. Così, seguendo le telecamere che acchiappavano spesso all'ultimo istante le immagini di chi cantava e suonava, abbiamo visto il maestro giapponese Kazushi Ono, autorevole sostituto d'emergenza del grande Temirkanov ammalato, guidare con passione e sicurezza,e con un suo fraseggio un poco ondeggiante, il coro e l'orchestra, accettabili, e i solisti.
Il programma era un'accozzaglia affettuosa di pezzi famosi. I cantanti hanno mostrato grande coscienza della parola e del personaggio.
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