Cultura e Spettacoli

La memoria corta di Luca Barbareschi

Come molti presunti antipatici, Luca Barbareschi ha finito, negli anni, per ispirarmi una certa simpatia. Per il suo vitalismo, per la voglia di sparigliare i giochi, per il suo sapersi muovere, fedele alle ragioni di un socialismo non piagnone, tra il teatro di Mamet e la tv del disamore coniugale, tra il culto di Casanova (così si chiama la sua casa di produzione) e la passione per Lucrezia Lante della Rovere. Ma forse esagera un po’ quando, intervistato dalla Palombelli sul Corriere della Sera, teorizza che «all’inizio degli anni Ottanta l’Italia sognata da Bettino e Claudio sembrava il paese delle meraviglie. Passione, creatività, merito: dalla Rai alla moda, dal teatro al cinema...».
Tralascio per incompetenza il resto delle meraviglie, ma il cinema? Mai periodo fu peggiore. Trionfavano solo i comici, il cinema assistito dallo Stato cominciava a far danni, la tv pensava di mangiarsi tutto e gli autori, da Fellini a Bellocchio, vivacchiavano confezionando i loro film peggiori. Nel ricordo i difetti impallidiscono, sicché Barbareschi oggi può dire: «Ci sentivamo chiamati a costruire una nuova società». Rimane il fatto che una tale fucina di idee, nell’applicazione pratica, non si intonò esattamente alle leggi dell’imprenditoria pura.

Tre lustri e passa dopo, nel farsi regista dei suoi due film, Ardena e Il trasformista, anche Barbareschi si sarebbe abbeverato al provvido ruscello ministeriale, ricevendo 2 milioni e 816 mila euro.

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