Memorie, viaggi e giudizi critici dello spericolato Alessandro Spina

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Parlando di un libro, pare osceno indicarne un altro, a mo’ di rosa dei venti o di astrolabio. Invece, per penetrare l’opera magnetica di Alessandro Spina - coerente caravanserraglio di miraggi - lasciatevi guidare dal francescano Guglielmo di Rubruk, che su ordine di Luigi IX di Francia compie nel 1253 uno spericolato Viaggio in Mongolia (l’anno scorso la Fondazione Valla ne ha architettato l’edizione critica). «Di bivacco in bivacco», tra Uiguri, Moal, Tangut e Tebet («essi avevano l’uso di mangiare i loro genitori, quando morivano, considerando l’atto segno d’amore e di rispetto»), Guglielmo fa sterminio dei «mostri» d’Oriente che affollano i baedeker medioevali, perché è troppo affascinato dalla realtà delle cose e dei fatti. Allo stesso modo Alessandro Spina - capitano d’industria in Libia per quasi una vita, cultore di mille e un Oriente - spazza via il nostro banano di vanità esotiche, ricordandoci che «volontà di perfezione individuale porta l’occidentale in Oriente; decadenza dell’organismo sociale l’orientale in Occidente» perché «l’occidente ricerca un centro di gravità, l’orientale un nuovo ordine sociale». Finché noi diventeremo taoisti a Pechino, mentre i pechinesi giocheranno a fare i manager a Milano. L’ospitalità intellettuale è il titolo del pensiero (pubblicato su Nuovi Argomenti nel 1982) a cui faccio riferimento, ma anche quello di una raccolta di articoli, memorie (il ricordo struggente di Vanni Scheiwiller, quello straziato di Cristina Campo), amori (Gustave Flaubert e Thomas Mann, Sinesio di Cirene e T.E. Lawrence), inediti.

L’editore Morcelliana prosegue nella pubblicazione dell’opera di Spina, che ha il suo centro nella raccolta complessiva dei romanzi (I confini dell'ombra, 1270 pagine, uscita nel 2006), a cui si aggiungono altri Tre romanzi brevi (2007), il Carteggio con la Campo (2007), l’aggiunta del Diario di lavoro (2010), e adesso le 464 pagine (euro 25) di questa scintillante miscellanea.

In cui Spina compie un’ulteriore analisi della sua opera, ci inoltra nella sua villa adagiata nella «verde Lombardia», mitraglia, con elegante mano assassina, alcuni giudizi critici: destinati ai kapò della cultura italica («dei libri di Vittorini, incensati quando uscirono oltre ogni dire, si parla sempre meno: resta - quasi - solo il ricordo della cantonata che prese nel caso Lampedusa») e all’italietta letteraria in genere, afflitta dal morbo dell’«impegno civile» («mentre Thomas Mann scriveva il Doctor Faustus, opera di sfuggente complessità, i nostri scrittori, qualunque fosse la loro provenienza, sfornavano gagliardi romanzi autobiografici sulla tragedia italiana ed europea di garibaldina facilità»).

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