Roberto Gotta
da Gelsenkirchen
Gioca o non gioca titolare contro il Portogallo, oggi, Kikìn Fonseca? Forse è meglio che non giochi. Così, quando inevitabilmente entrerà in campo, si svolgerà il rituale di inizio estate: l'ovazione dei tifosi messicani. Che si aspettano almeno il passaggio agli ottavi, se non ai quarti, forti delle belle prove nella Confederations Cup dello scorso anno. Piace per il suo gioco generoso e irruente («uno dei migliori che ci siano quando si lotta per un pallone in area» dice il suo ct Lavolpe) e per il dramma che lo accompagna.
Fonseca, nato a Leòn il 2 ottobre 1979, si chiama Kikìn in onore del fratello Enrique, scomparso 15enne nel sonno nel 1981 quando José aveva solo due anni. Dato che il padre era soprannominato Kiko, Enrique era per tutti Kikìn, e in sua memoria il soprannome permane sulla maglia di Fonseca, che lo indica a ogni gol segnato. Dopo la vittoria contro l'Iran allesordio, Kikìn aveva voglia di festeggiare senza esporsi troppo: non ha fatto altro che infilarsi la maschera da wrestling gialloverde di Fishman, mettersi un cappellone ed uscire a bere qualcosa. Pochissimi l'hanno individuato, e lui per una sera è tornato l'anonimo che giocava nel Cancùn, nel Curtidores e nel La Piedad dove Hugo Sanchéz, l'ex Real Madrid, lo vide e lo spostò da ala destra a centravanti. Bingo: gol e doppio titolo nazionale nel 2004, con successivo passaggio milionario al Cruz Azul, gennaio 2005.
In nazionale Fonseca ha debuttato segnando all'Ecuador, ora è a 15 gol in 20 gare. Con Borgetti infortunato e Franco fuori fase, starebbe a lui fare oggi da partner d'attacco di Omar Bravo, ma fa più scena quando entra a partita iniziata, e dagli spalti lo salutano come salvatore, dopo averne invocato l'ingresso come con l'Angola. E pazienza se l'unica chance, un sinistro al volo, l'ha sprecata.
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