«Mi dispiace per il ragazzo, ma ci siamo difesi»

Amareggiata la signora Markovich: «Terribile. Vale così poco la vita di un ragazzo di 21 anni?»

(...) E ancora, «non immagina quante volte ho ripensato a quel giorno, quante volte ho immaginato tutte la varianti possibili di quella scena, tutti i modi perché non finisse com’è finita?». «Ma lo ripeto - prosegue - non non abbiamo sparato per uccidere né per recuperare gli orologi che ci avevano rubato, siamo usciti in strada per fermare i due rapinatori e basta. Ma Markovich non si è fermato, è entrato nell’auto e ha continuato a tenere le mani nascoste sotto il cruscotto. È a quel punto che abbiamo pensato che volesse impugnare un’arma, e solo allora abbiamo sparato verso di lui, credevamo che la nostra incolumità fosse in pericolo». Ma «sono dispiaciuto, davvero. L’ho detto alla madre, e capisco il suo dolore. Ma so che non mi può perdonare, per lei resterò sempre quello che ha ucciso suo figlio». In realtà, la pallottola «fatale» l’ha sparata il figlio. «E per questo mi sento responsabile - continua Giuseppe - ma sono orgoglioso di lui, che mi ha voluto difendere. Posso incolparlo per essere stato al mio fianco?». «Per due anni i cittadini ci hanno mostrato la loro solidarietà, ma abbiamo chiesto che non manifestassero, come ci hanno chiesto di fare anche in questi giorni. Anche alcuni politici ci sono stati vicini, ma in questo periodo di campagna elettorale non ho voluto che la nostra situazione venisse strumentalizzata. Io candidato? No, non me l’hanno proposto, e comunque non credo che accetterei». Però «la sentenza rispetta la realtà che, invece, era stata stravolta dall’accusa». Poi basta. «Vado ad abbracciare le mie persone». Tra queste, anche Antonio Petrali figlio di Giovanni, che il 17 maggio 2003 uccise un rapinatore e ferì gravemente il suo complice, reagendo a un tentativo di rapina nel suo bar di piazzale Baracca. Si stringono a lungo, i due.
E Rocco, che per questi due anni non ha voluto parlare «sono uno di poche parole», si lascia andare. Poco, forse, ma è qualcosa. «Ora voglio soltanto tornare a casa, da mia moglie che aspetta un altro bambino e da mio figlio. Non festeggeremo, vogliamo solo stare tranquilli. Attendo di vedere quello che scriveranno i giudici tra sessanta giorni». Un’unica ombra. «Credete che il pm non farà ricorso?». Scoppia in lacrime Caterina Maiocchi, la sorella di Giuseppe. «È stato un periodo terribile, ogni notte a ripensare a quello che era successo e con l’incubo di quello che sarebbe stato deciso oggi. Vogliamo solo tornare a una vita normale. Ma non è possibile dimenticare».
Emozionati, lo sono tutti. Ma non tutti allo stesso modo. Esce dall’aula, il volto livido. L’interprete le ha appena tradotto la sentenza della prima corte d’assise. Nessuno, per la morte di suo figlio, andrà in carcere.

Vladica Markovich, madre di Mihailo, non ha voglia di parlare. Solo, quasi sottovoce, una domanda. «Dunque vale così poco la vita di un ragazzo di 21 anni?». Ancora una parola prima di abbandonare il tribunale. «È terribile». Poi, nient’altro.

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