Mi faccio il segno della croce, basta un ordigno ed è finita

Il diario di guerra di Matteo Miotto in cui racconta le tensioni delle perlustrazioni sul blindato: "Bombe ovunque, ma non ci pensi"

Mi faccio il segno della croce, basta un ordigno ed è finita

Pubblichiamo la lettera scritta dal Caporal Maggiore Matteo Miotto per il sito internet del quotidiano Il Gazzettino nella sezione dedicata alla brigata Julia in Afghanistan. Le parole del Caporal Maggiore Miotto furono lette pubblicamente in occasione della festa delle Forze armate, il 4 novembre, nella sua Thiene. Miotto è morto il 31 dicembre in un attacco nemico nella regione afghana del Gulistan. Aveva 24 anni. Ieri, nella base di Herat, c’è stato l’ultimo saluto al militare caduto. Poi la bara, avvolta nel tricolore, è stata trasportata su un camion fino al C-130 dell’Aeronautica che atterrerà stamane a Ciampino.

di Matteo Miotto*

Voglio ringraziare a no­me mio, ma soprattutto a no­me di tutti noi militari in mis­sione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensie­ro solo in tristi occasioni co­me quando il tricolore avvol­ge quattro alpini morti facen­do il loro dovere. Corrono giorni in cui iden­tità e valori sembrano supera­ti, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove venia­mo, a cosa apparteniamo... Questi popoli di terre sven­turate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comanda­re non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici do­po che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: inva­no. L'essenza del popolo af­ghano è viva, le loro tradizio­ni si ripetono immutate, pos­siamo ritenerle sbagliate, ar­caiche, ma da migliaia di an­ni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muo­r­e per amore delle proprie ra­dici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano po­polo dalle usanze a volte an­che stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi. Come ogni giorno partia­mo per una pattuglia. Avvici­nandoci ai nostri mezzi Lin­ce, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all' interno, non una parola. So­lo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvista­ti, su possibili zone per imbo­­scate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo af­ghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplode­re al passaggio delle sei ton­nellate del nostro Lince. Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potreb­be essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impe­gnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, final­mente siamo alle porte del villaggio... Veniamo accolti dai bambi­n­i che da dieci diventano ven­ti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla boc­ca ormai sappiamo cosa vo­gliono: hanno fame... Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorel­la... Dei loro padri e delle loro madri neanche l'ombra, il vil­laggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che han­no tutta l'aria di non essere li per giocare... Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpa­glie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, porta con sé il rac­colto, stanno lavorando... e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbi­gottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pe­core ne sa qualcosa... Dietro le finestre delle ca­panne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta... Delle don­ne neanche l'ombra, quelle poche che tardano a rientra­re al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all' ombra... Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie ta­sche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati... Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guer­ra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai...

” Ed eccomi qua, valle del Guli­stan, Afghanistan centrale, in testa quello strano coprica­po con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià...”
*Caporal Maggiore - Valle del Gulistan, novembre 2010

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