«La mia Berlino? Mi ricorda di essere italiano»

Vai in Triennale a una mostra fotografica su Berlino e ti aspetti alcune cose: è il ventennale della caduta del muro e le celebrazioni, da qui a novembre, non si contano (il Goethe Institut di Milano, ad esempio, pochi giorni fa ha organizzato un’interessante tavola rotonda con Lech Walesa ospite d'onore). Eppure «In Berlin», personale del fotografo Giovanni Chiaramonte, non è nulla di ciò che prevedi: il suo sguardo, amorevole e acuto, sulla Berlino di un tempo e su quella di oggi, coglie il noto muro come un dettaglio sullo sfondo, di rado come protagonista. Al suo posto, ci sono rovine ottocentesche, marmi, colonne. E, con apparente distacco, la capitale che rinasce. Per rappresentare l'ascesa, la caduta e poi la ripresa di Berlino, Chiaramonte ha scelto di soffermarsi sul sogno di Schinkel, l'architetto prussiano che nell'Ottocento per primo diede forma al centro urbano della metropoli tedesca. È il sogno di una nuova Roma imperiale: la storia ci insegna destinato al fallimento. Il lavoro di Chiaramonte a Berlino («il lavoro di una vita») comincia nell' '83 quando la prestigiosa rivista internazionale Lotus gli affida un reportage sulla città. «Cercavo l’identità originaria di Berlino e le tracce del suo tragico destino di città distrutta e divisa - spiega il fotografo -. Il cuore della tragedia tedesca, la Shoah, nasce proprio da lì, dall'idea di fondare la città sull'ideale di Atene e nella memoria dell'impero romano, eliminando ogni figura della civiltà ebraico-cristiana».
Giovanni Chiaramonte, è per questo che nelle sue foto il muro di Berlino appare, per citare le sue stesse parole, come «una quinta lontana»?
«Quando, nel 1989, il muro cadde, ripresi le mie campagne fotografiche su Berlino, approfondendo il rapporto tra la città sognata un tempo dagli imperatori tedeschi e quella che si andava costruendo. I rimandi sono continui».
Cos'è per lei Berlino?
«È la città dove ho trovato le ragioni del mio essere italiano: ho ritrovato lì le colonne di Gela, la città d'origine della mia famiglia, e quell'idea di capitale imperiale che lega profondamente il mondo latino e quello tedesco».
Berlino dunque è un simbolo?
«Le città dell'Occidente, con le loro ragioni e i loro torti, per natura aspirano a essere universali».
Se osserviamo le foto di Berlino degli anni Ottanta e quelle da lei scattate nel 2003 presentate nell'ultima sezione della mostra, non sembra sia poi cambiato molto.
«Alcuni dicono che sembrano fatte nello stesso istante. Questo perché la vera essenza del tempo è il singolo istante, e compito della fotografia è entrarvi dentro».
Con questa monografica in Triennale si omaggia la sua carriera professionale: lei qui è di casa...
«Se sono diventato fotografo è grazie alle prime mostre che venivo, da ragazzo, a visitare proprio in Triennale. È qui, nel palazzo di Giovanni Muzio, che si è sempre discusso della città occidentale».
Che poi è il soggetto prediletto dei suoi scatti, tanto da meritare l'appellativo di «ritrattista di città». Allora le chiediamo: come ritrarrebbe, oggi, Milano?
«Criticando City Life».
Perché?
«Nei grattacieli progettati da Zaha Hadid e Daniel Libeskind manca ogni riferimento alla tradizione architettonica meneghina. Se penso invece al senso e ai modi della ricostruzione di Berlino, vedo un'operazione che non dimentica il passato».
Che volto di Milano vorrebbe ritrarre?
«Ho intenzione di riprendere alcuni luoghi della periferia di Milano, in particolare quei luoghi dove si riconosce ancora viva l'immagine stessa della città.

Vorrei tornare a lavorare intorno alla cerchia dei Navigli e spingermi nella zona di Rho. Amo definire Milano una città di cerchi, una metropoli che si allarga, ma dove, anche in periferia, è possibile trovare tracce che rimandano al suo centro. Queste tracce sono ciò che amo ritrarre».

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