«La mia montagna di sale per Milano»

I 150 quintali di sale arrivano domani e la montagna di Mimmo Paladino, alla cui costruzione hanno assistito incuriositi i passanti di piazzetta Reale, finalmente prenderà forma come classica ciliegina sulla torta della grande antologica dedicata all’artista campano. Chi ha la memoria buona, non ha dimenticato i cavalli «mariniani» mezzi sepolti nel bianco accecante di piazza Plebiscito di Napoli. Chi ce l’ha ancora più lunga, sottolineerà che la montagna in realtà nacque nel 1990 nella sicula Gibellina come scenografia per lo spettacolo di Schiller La sposa di Messina. Adesso sarà ai piedi del Duomo, non nella posizione scelta dall’artista come nella foto qui pubblicata, ma a ridosso di Palazzo Reale «per ragioni di opportunità»
Aveva senso riproporre quell’installazione dopo 20 anni in un contesto così diverso?
«Il senso dell’arte è sempre quello di cui investiamo un’opera. In Sicilia, per la pièce diretta da De Capitani, mi ispirai al tema della guerra che fa da sfondo alla tragedia di Schiller, ma anche alle saline di Messina. A Napoli quel moto ascensionale simboleggiava la rinascita creativa che pervadeva la città agli inizi degli anni ’90. L’opera ora ricompare a Milano come in un metaforico viaggio dalla Sicilia verso il Nord, richiamando il Miracolo cinematografico di De Sica ma anche l’andamento piramidale della facciata del Duomo».
La mostra di Palazzo Reale comprende dipinti, sculture e installazioni dagli anni Settanta a oggi. Ma lei ha lavorato anche con musicisti e registi teatrali, come Brian Eno e Martone
«Ho sempre avuto una grande curiosità per gli altri territori dell’arte, anche se oggi sembra scontato. Nel Duemila, per l’Edipo re all’Argentina di Roma, creai vere e proprie installazioni più che una semplice scenografia. Con Brian Eno andò diversamente. Seppi che il compositore inglese apprezzava il mio lavoro e decidemmo di fare insieme il progetto espositivo I dormienti presentato a Londra nei sotterranei del Roundhouse, un affascinante dialogo tra arti plastiche e musica. A Palazzo Reale la ripropongo al fianco di un giovane compositore, David Monacchi».
Lei però storicamente rappresenta la rivincita della pittura sull’Arte Povera degli anni ’70, addirittura intitolò un suo dipinto «Silenzioso mi ritiro a dipingere un quadro». Oggi avrebbe ancora senso?
«No, perchè siamo in pieno manierismo, ma allora vivevamo un’epoca in cui l’arte era relegata al ruolo di concetto puro. Io già allora amavo la pittura di Jasper Johns, di Rauschenberg e di Franz Kline e, come si suol dire, mi piaceva usare le mani. Il che non significava mettere in secondo piano il pensiero».
Che nel suo caso si esprime attraverso simboli ancestrali e primitivi, come i cavalli della montagna o quello blu che campeggia nel teatro del Vittoriale
«Io provengo dalla Magna Grecia e mi sento istintivamente vicino al bagaglio iconografico della nostra antichità ma anche delle tradizioni contadine. Ho utilizzato i manufatti popolari come ready made per le mie opere e al Museo Archeologico di Chieti mi hanno chiamato ad allestire la nuova sala del Guerriero di Capestrano. Lavorare sul genius loci è stata la fortuna della mia generazione in un momento di globalizzazione del concetto nell’arte».
Già, il movimento della Transavanguardia fondato da Achille Bonito Oliva alla Biennale Aperto ’80, l’ultima corrente italiana di successo...
«Sì, anche se non era una vera corrente. In fondo io, Clemente, Chia, Cucchi e De Maria vivevamo in città diverse e avevamo storie totalmente autonome. Una cosa ci accomunava: la ricerca delle radici. Chia citava la tradizione medievale toscana, Cucchi le pianure marchigiane e Clemente l’India, che amava più dell’Italia».
E lei le allegorie della Magna Grecia. Poi però ha vissuto a Milano quasi 20 anni, che ricordi ha?
«Mi piace citare la frase di Troisi quando disse: non sono un emigrante ma un viaggiatore. E negli anni ’70 per me Milano rappresentava un simbolo di modernità. Ho ancora casa qui, anche se vivo a Roma».


Quell’aereo in Galleria Vittorio Emanuele cos’è, un omaggio allo sponsor?
«Anche, ma non solo. In fondo è un omaggio al Futurismo, alle risse in gallerie. Oggi la tecnologia d’uso mi incuriosisce perchè è anch’essa popolare. Pensi che in passato ho dipinto perfino uno swatch».

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